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Scacco al fante, pt. 3

Creato il 19 marzo 2011 da Emanuelesecco

CAPITOLO 3
13 APRILE 1918

 

Il passo del maggiore Hicks si poteva distinguere anche durante il più terribile dei fuochi di sbarramento. Un passo veloce, ma allo stesso tempo pesante, deciso e che emanava un’aura di autorità.
Quando il maggiore Hicks usciva dal suo alloggio del settore ‘D’ e cominciava a camminare avanti ed indietro per la trincea, ogni soldato era sicuro che di lì a poche decine di minuti dopo si sarebbe dovuto attaccare il nemico. Già era un segno il fuoco dei propri cannoni, ma non teneva certo il confronto con il portamento autoritario che il maggiore sfoggiava durante l’ispezione alle truppe: petto in fuori, pancia in dentro, mento propenso verso l’alto, labbra così serrate che sembravano essere un tutt’uno e occhi che incrociavano quelli di ogni soldato incontrato. Quegli occhi di ghiaccio non lasciavano trasparire nessuna emozione, ma solo un confortante e impavido messaggio di speranza per la truppa. Ogni volta che quello sguardo si posava anche sul più giovane dei soldati si poteva sentire nell’aria un incitamento a fare del proprio meglio per raggiungere il più presto possibile la vittoria.
Quando il maggiore passava, ogni soldato si sentiva pronto a combattere. E ora era quasi giunto il momento di fare il proprio sporco dovere per l’ennesima volta.
Era una nuvolosa mattina, quella del 13 aprile 1918, non vi erano segnali di precipitazioni imminenti, e anche il vento sembrava aver rinunciato a compiere il suo fastidiosissimo compito. Del fumo nerastro che si levava dalla terra di nessuno e qualche cratere in più qua e là era tutto quello che rimaneva dell’assalto tedesco del giorno prima. Ormai era tutto inutile per i fieri alemanni: ‘Operazione Michael’ era ufficialmente fallita e, a dirla tutta, si cominciava ad essere abbastanza stanchi di quella logorante guerra che durava ormai da più di tre anni e mezzo. Ormai anche l’ultimo tentativo tedesco di ricacciare le truppe inglesi era fallito. È da dire che ‘Operazione Michael’, ideata dai generali tedeschi Paul von Hindenburg e Erich Ludendorff, avrebbe avuto come scopo quello di respingere le truppe britanniche verso il mare, attaccando su tutto il fronte francese e creando un cuneo tra le forze nemiche. I primi giorni sembrò che l’operazione stesse avendo successo, ma le truppe inglesi resistettero a tal punto da fermare l’avanzata tedesca a soli sei giorni dall’inizio delle operazioni.
Ora non rimaneva che attendere la controffensiva britannica.
Hugo stava seduto su di una cassa di legno contenente munizioni per mitragliatrice, fumandosi una sigaretta e scrivendo la sua lettera settimanale all’adorata Marilyn.
Negli ultimi tre anni erano successe parecchie cose, compresa la sua nomina a capitano di compagnia. Passare da tenente a capitano fu un bel balzo, responsabilità nuove e maggiori, e il solo aver in mano la vita dei propri uomini l’aveva cambiato definitivamente, sia per quanto riguarda il carattere ché per l’aspetto fisico. Le rughe rigavano molto dettagliatamente il suo volto scavato di giovane capitano di compagnia, i capelli cominciavano a farglisi bianchi, gli occhi gli erano diventati gelidi, e la pelle delle mani gli si era indurita a tal punto che al primo freddo gli si aprivano dappertutto dei minuscoli tagli, ma per ovviare a questo problema esistevano i guanti (destinati solo agli ufficiali di grado abbastanza elevato). Il fisico gli si era irrobustito e allo stesso tempo asciugato, abbandonando senz’altro il grasso che si accumula negli arti di un soldato quando è di stanza fissa in qualche caserma vicino a casa, ma allo stesso tempo Hugo sentiva che non aveva più la resistenza di una volta a causa del severo e puntiglioso razionamento del cibo alla quale era sottoposto come tutti gli altri. Solo gli alti ufficiali, chissà perché, erano rosei e paffuti nei loro comandi situati nelle retrovie.
Si può dire, però, che il cambiamento più sostanziale, in più di tre anni di assalti, avvenne proprio nel suo carattere, a partire dagli occhi, due pezzi di ghiaccio che risaltavano ancora di più immersi in due occhiaie perenni ma seminascoste da folte sopracciglia grigiastre. Ogni traccia di paura era definitivamente scomparsa e il cuore gli si fece duro come una roccia e impermeabile alle emozioni, e la giocosità di un tempo, tratto che fece innamorare Marilyn, aveva lasciato mano a mano spazio ad un silenzio volontario, come se Hugo volesse rendere sempre l’idea che non c’erano parole per quello che aveva visto.
Le uniche volte in cui si poteva udire la sua voce erano quelle in cui impartiva gli ordini alla truppa o per acconsentire alle direttive che gli arrivavano dai superiori e, in quei pochi e rari sprazzi di parole, si intuiva che anche la sua voce era cambiata diventando più profonda e roca a causa del fumo respirato continuamente e all’umidità alla quale era ormai costantemente esposto dormendo in trincea insieme ai suoi uomini per dargli il buon esempio.
Sebbene fosse diventato un’altra persona, più rude e decisamente meno avvezza al gioco, si può dire che Hugo non fosse un cattivo capitano, anzi. I suoi uomini l’avevano capito al volo, anche perché loro stessi erano soggetti a tali cambiamenti di umore, e gli obbedivano di buon grado. Secondo loro il capitano Stiglitz era uno dei migliori capitani di compagnia del battaglione, non prendeva mai una decisione senza pensarci su, evitando così di servire le loro vite su un piatto d’argento agli avversari alemanni. Hugo non aveva mai imposto ai suoi uomini una ricognizione, aveva sempre lasciato che fossero dei volontari ad offrirsi, e questo avviene quando nell’ufficiale superiore vengono riposte tutte le proprie speranze di vita e la propria più completa fiducia.
C’è anche da dire che grazie all’ottimo comando di Hugo, nella compagnia non si erano più registrate perdite comparabili a quelle di quel fatidico 12 settembre 1914, in cui perirono ben 140 uomini su un totale di un paio di centinaia.
Gli uomini erano contenti di lui, e lui li ricambiava non facendogli rischiare la vita per il semplice fatto di dover eseguire degli ordini dell’Alto Comando. La vita umana aveva un valore in quella compagnia, tanto che la maggior parte di loro erano ancora appartenenti a quei rimpiazzi giunti dopo il primo disastroso assalto.
In quel 13 aprile però le cose sarebbero cambiate, si sarebbe dovuta conquistare la posizione nemica ad ogni costo. Per questo Hugo stava scrivendo a Marilyn, per allontanare da se quelle piccole preoccupazioni che, sebbene il suo cuore fosse diventato duro come il marmo, prima di ogni attacco lo tormentavano. In quei pochi minuti, come ogni volta, si era chiuso nel suo mondo, immaginando di essere a casa e di parlare a quattr’occhi con la sua amata. Niente poteva distrarlo in quegli attimi, nemmeno i rimbombi dei cannoni che tempestavano ormai da un paio d’ore le trincee tedesche al di là della terra di nessuno.
-Capitano Stiglitz!-
La voce fredda e tonante del maggiore lo fece uscire tempestivamente da quel mondo felice nel quale si trovava.
-Capitano Stiglitz!-
Hugo scattò in piedi e si mise sugli attenti, con ancora in mano carta e penna, la sigaretta era finita ormai da un pezzo, e se non fosse comparso il maggiore Hugo se ne sarebbe accesa senz’altro un’altra.
-Ai suoi ordini, signore!-
-Venga con me all’osservatorio.-
-Subito, signore!-
Il maggiore cominciò ad avviarsi verso la postazione di osservazione e Hugo lo seguì poco dopo aver racimolato il suo equipaggiamento e soprattutto dopo aver intascato la preziosa lettera che stava scrivendo e che, ahimè, avrebbe dovuto attendere per essere completata.

Il tenente Barry camminava avanti e indietro per i pochi metri di trincea nei quali era radunato il suo plotone, aspettando impazientemente il ritorno del capitano Stiglitz per sapere finalmente quali ordini doveva dare agli uomini. Poco più in là c’erano anche i tenenti Simcox e Quincy, impazienti anche loro di saper di quale morte dovevano far morire i propri soldati in quel nefasto giorno. Magari la loro compagnia sarebbe stata risparmiata dall’imminente assalto, ma a dirla tutta era una prospettiva molto improbabile in quel momento in quanto solo la possanza del fuoco di sbarramento che tutt’ora continuava a martellare l’altro versante del campo di battaglia lasciava intuire che questa volta si trattava di qualcosa di veramente grosso al quale anche il più misero drappello di soldati non avrebbe potuto sottrarsi.
I tre sapevano benissimo di innervosire gli uomini con questo loro atteggiamento di impazienza, ma non potevano farci niente, avevano i nervi a fior di pelle anche loro. Qualche soldato si era persino inginocchiato per pregare il proprio dio di avere pietà di lui, di risparmiargli la vita e di poter finalmente tornare a casa dalla propria famiglia.
Barry si fermò a guardare uno di loro, cercando di carpire le parole pronunciate con un filo di voce e coperte dal rumore dei proiettili di grosso calibro che continuavano a sorvolare la trincea. Quanti anni avrà avuto quel soldato… diciotto, diciannove? Sul viso aveva ancora qualche macchia di pelle priva di barba… buon dio, era solo un ragazzino, e oggi gli sarebbe toccato morire.
-Sergente Spoor!-
Si fece avanti un giovane di neanche venticinque anni, magrissimo e con le guance scavate e ricoperte di barba incolta da giorni.
-Sì, tenente Barry.-
-Corri a chiamare il capitano Stiglitz. Cercalo dappertutto, non posso continuare a mantenere gli uomini in un tale stato di agitazione.-
Spoor sembrò distogliere gli occhi per un momento da quelli di Barry guardando qualcosa al di là e abbozzando un lieve sorriso.
-Non è necessario, tenente…- disse il giovane sergente. Neanche riuscì a finire la frase che il Barry gli si piantò davanti con tutta la sua stazza da contadino inglese.
-Osi discutere i miei ordini, sergente?!- urlò Barry ringhiando come un cane rabbioso.
Spoor deglutì a fatica, ricordandosi di cosa era capace il tenente Barry quando perdeva le staffe. Una volta era persino riuscito a sollevare da solo tre casse di munizioni e lanciarle verso il soldato al quale erano cadute. La sua forza era ormai leggendaria nella compagnia, e anche le lavate di testa che aveva dovuto sorbirsi da parte del capitano Stiglitz.
-No, signore…-
Barry afferrò il magro sergente per i risvolti della giacca, sollevandolo per un attimo di qualche centimetro da terra e tirandolo a sé.
-E allora perché metti in discussione un mio specifico ordine?!-
-Tenente Barry… datti una calmata!-
La voce roca e profonda del sergente Stiglitz suonò come una benedizione alle orecchie di Spoor, facendogli tirare un sospiro di sollievo. Senza ulteriori indugi si liberò dalla presa del tenente Barry, come paralizzato dalla sorpresa, e si allontanò da quest’ultimo di qualche passo un’espressione a dir poco terrorizzata dipinta sul volto.
Il tenente si girò e si ritrovò davanti lo sguardo di ghiaccio del proprio capitano. La fronte era così contratta che le sopracciglia sembravano unirsi. La mascella era serrata e le labbra apparivano essere così sottili che si poteva scorgere la bocca solo come una sottile e dritta linea sotto il naso. Brutto segno.
-Tutto bene?-, gli occhi freddi come il ghiaccio si posarono sul sergente Spoor. La severità del tono di voce di Hugo era pari solo alla sua fermezza e inesistente espressività.
-Sì, signore. Tutto bene-, disse Spoor recuperando il fiato.
-Meglio così-, ora lo sguardo tornò a fissarsi sul tenente Barry. Hugo non aveva ancora alzato un dito, sapeva bene dell’ascendente che aveva sui suoi uomini e della reverenza mista a terrore che prendeva ognuno di essi quando lui assumeva quell’atteggiamento di calma indignazione.
-Signore, io…- mugugnò Barry con voce tremante. Qualche goccia di sudore cominciò a scendergli sulle guance.
-Seguimi, e non discutere.-
I due si allontanarono di qualche passo dal resto degli uomini, che avevano potuto assistere in silenzio all’intera scena. Tutto sembrava immobile, l’atmosfera si era fatta così carica di tensione che non si udiva volare una mosca. In quel momento persino le esplosioni dei proiettili d’artiglieria sembravano essersi fatti più tenui.
Hugo si fermò dando le spalle a Barry che, fermandosi anche lui, si girò un momento a fissare Quincy e Simcox per chiedergli aiuto, ma il primo fece cenno di no con la testa e il secondo gli fece capire, scandendo bene il labiale e ben attento a non emettere il benché minimo suono, che se l’era andata a cercare e che non avrebbe potuto farci niente contro il capitano.
-Stai bene sull’attenti-, Hugo si girò verso il tenente e ricominciò a fissarlo con quello sguardo severo e gelido.
-Che cosa avevi intenzione di fare, eh?!-
-Signore, io…-
-Non voglio sentire obiezioni, tenente. Qui non siamo in un dannato pub in cui ci si azzuffa per un nonnulla. Qui siamo in guerra se non l’hai ancora capito bene-.
Barry alzò gli occhi al cielo inspirando aria dal naso.
-Togliti quell’espressione da saccente dalla faccia, tenente. Essere qui è una situazione alquanto delicata. E io non posso fare affidamento su di te se maltratti i miei uomini in questo modo.-
Il tenente cominciò a sudare freddo, le mani presero a tremare impercettibilmente. Cominciava a capire a che punto voleva arrivare il capitano: voleva degradarlo. Così, solo per aver esagerato un po’ più del solito nel fare una ramanzina ad un soldato semplice. Inaudibile, un capitano che si permette di fare queste cose senza nemmeno consultarsi con un superiore.
-Sappi bene, tenente Barry, che sarei molto propenso a degradarti o a chiedere il tuo trasferimento, ma per tua fortuna oggi non è la giornata giusta per rivedere l’organico delle compagnie.-
-Signore, sono profondamente dispiaciuto per l’acc…-, non fece in tempo a finire la frase che Hugo gli si piantò dinnanzi portando il proprio volto a pochi centimetri di distanza da quello di Barry.
-Non è vero, tenente… non ne sei dispiaciuto-, ora il tono del capitano era calmo e quanto mai pacato, -e se non fosse giornata di assalto, e soprattutto se tu non possedessi una spiccata capacità nel condurre i tuoi uomini in battaglia, vedresti di cosa sono capace.-
Barry deglutì a fatica. Le gambe ormai tremavano a vista d’occhio e il viso era ricoperto di gocce di sudore.
Proprio in quel momento i cannoni britannici smisero di sparare e, dopo gli ultimi boati dovuti alle esplosioni degli ultimi proiettili sparati, tutto cadde nel più assoluto silenzio. Non vi era neanche vento… era arrivata l’ora di attaccare la postazione nemica.
Udendo che l’artiglieria si era fermata Hugo si calmò del tutto, lasciandosi alle spalle l’increscioso incidente con il tenente e, avanzando verso la fila di uomini che ancora li guardavano, urlò –Tenente Simcox! Tenente Barry! Tenente Quincy!-
I tre si misero sull’attenti davanti al proprio capitano.
-Signore!-
-Avvisate i vostri uomini, il momento dell’attacco è giunto!-
-Signorsì!-
-Spiegate loro che il nostro obbiettivo è la postazione di mitragliatrice tedesca che guarda proprio verso il nostro settore. Quel nido deve essere distrutto ad ogni costo e la postazione nemica conquistata e tenuta fino all’arrivo dei rinforzi.-
-Signorsì!-, i tre tenenti si girarono di scatto e uno per uno si diressero verso il proprio plotone per trasmettere gli ordini appena ricevuti.
In quel momento, per tutta la trincea britannica, i fischietti dei comandanti cominciarono a far udire il proprio suono… e le truppe si avvicinarono pian piano alle scale adagiate sulla parete della trincea dal lato della terra di nessuno.
L’attacco era cominciato.

 

To be continued…

 

E.


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