E’ un libro pubblicato in Italia, anni fa, per l’esattezza nel 2005, ma con la penuria che c’è in giro di testi interessanti, specie poi nel periodo estivo, vale la pena ricercarlo anche in biblioteca (per chi non lo avesse già fatto in precedenza ) e magari cominciare a leggerlo.
L’autore , giornalista e scrittore, è stato, a differenza dei suoi contemporanei, un grande viaggiatore.
Parliamo di un uomo del XIX secolo con vizi e virtù di un qualsiasi comune mortale.
Ma persona intelligente e curiosa, capace di vedere chiaro tanto nel vicino che nel lontano.
Il tono della narrazione di questo reportage-inchiesta è sarcastico, ironico e, a momenti, anche violento nei confronti dei compatrioti dell’autore.
Uomini e donne che vivono nelle colonie e nelle loro agiate dimore praticano ogni tipo di sfruttamento.
L’assunto centrale di tutto per chi scrive è che la schiavitù non è certo finita con l’arrivo della pax coloniale.
I colonialisti non sono, insomma, dei benefattori.
Un’affermazione per noi, oggi, scontatissima ma che non lo era certo per gli uomini e le donne di quel tempo che, anzi, si sentivano dei benefattori del povero “negro”.
Viaggiando, come ha fatto, lungo i milleduecento chilometri di ferrovia, che collega l’Atlantico al fiume Niger, il “nostro” sostiene addirittura e lo dice a voce alta che ogni viaggiatore dovrebbe portare con sé una cassa di fiori da seminare sul percorso : “Saremo così sicuri di onorare a ogni traversina la memoria di un negro caduto per la civilizzazione”.
Chissà cosa scriverebbe ai nostri giorni, se fosse vivo, Albert Londres sui migranti e sull’Europa, sulla mattanza che spesso cade nell’indifferenza generalizzata e sugli interessi dell’uomo bianco?
Colui che sfacciatamente non fa mistero alcuno di sfruttare una manodopera a bassissimo costo e solo pro domo sua?
Interessanti, inoltre, i molteplici riferimenti storici, politici e giuridici riguardanti l’epoca e relativi alle colonie.
Come, ad esempio, l’osceno inganno dei villaggi di libertà, istituiti dalla Francia nel 1910, dove la gente veniva “arruolata” per sfuggire (secondo il bianco) alla schiavitù.
E dove i guardiani locali ricorrevano alla frusta per impedire il rientro eventuale (quando il tentativo di fuga sembrava riuscito) di uomini e donne nei propri villaggi.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)