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Aveva, in camera da letto, ben coperto da fogli di giornale, che nessuno ci mettesse le mani, un deschetto da ciabattino fornito di tutti gli strumenti del caso, alcuni costruiti da lui stesso. Trincetti affilati d'acciaio, lesine dalla punta ricurva per forare il cuoio, spaghi idonei, un pesantissimo "piede" di ghisa a tre dimensioni di suola in cui infilare la scarpa da riparare, uno speciale martello ricurvo e ogni genere di chiodi di tutte le dimensioni, incluse le cosiddette semenzine che si metteva in bocca per poi prenderle ad una ad una e piantarle nelle suole. Tutto il deschetto era cosparso di ritagli di cuoio, tacchi e altri strumenti di cui non so il nome. Mentre io stavo a guardare, si sedeva su uno sgabello basso, con un pesante grembiale sulle ginocchia, ritagliava il disegno della suola su un foglio di giornale poi, trinciava la pezza di cuoio e dopo averla ben smerigliata con la carta vetrata zero, la cospargeva della famigerata colla tedesca, usando un dito che poi rimaneva irrimediabilmente impiastricciato per ore. Aspettava dieci minuti canonici, che conferivano alla colla la sua presa micidiale, quindi la applicava alla scarpa da risuolare, infilata nel piede di ghisa e liberata dalla suola vecchia. La ribatteva bene col martello in modo che fosse bene aderente, poi col trincetto rifilava con precisione le parti debordanti della nuova suola, che successivamente lisciava con un altro attrezzino che era stato fatto arroventare sul gas.
A volte il guaio era più grave e la tomaia aveva qualche punto in cui non era più aderente alla suola. Allora bisognava provvedere alla famigerata doppia cucitura, con un grosso ago e spago da ciabattino, dopo aver fatto tutta una serie di fori tra tomaia e suola con la lesina. Lavoro di precisione che non doveva in alcun modo trasparire dall'esterno, a cui si applicava con calma calcandosi gli occhiali sul naso. Dopo che la cucitura era stata ben ribattuta, si riapplicava la fodera interna e a fine mattinata le scarpe erano pronte. Le metteva per terra e me le faceva provare. Caméina 'n po' e uarda s'it fan ma' i pé. Andavo avanti e indietro due o tre volte in cucina, davo il mio assenso informato e mamma si impadroniva al volo delle calzature, ormai come nuove e le lucidava con grande cura e attenzione con il Brill nero, steso su una pezzuola morbida. Il giorno dopo non mi bagnavo più i piedi, anche se c'era l'uragano. Come erano comode quelle scarpe appena risuolate, ti sentivi il piede più caldo; allora forse non me ne rendevo conto, anche se me lo sentivo dentro, ma era quasi come se fosse stato avvolto da un abbraccio affettuoso, pieno d'amore. Adesso, le scarpe consumate, devo buttarle via, anche se, coi piedi bagnati non mi è mai venuta la pleurite.
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Con la mamma non si scherza.
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