Delle fiabe su disco, tra le mie preferite c’erano quelle di Hans Christian Andersen e, tra queste, l’indimenticabile Scarpette rosse (De Røde Skoe), del 1845, la prova assoluta che l’ossessione delle donne per le scarpe esisteva già nell’800 e non l’ha inventata Carrie Bradshaw. Tra l’altro non è un caso che nella fiaba le scarpe fossero rosse, perché il rosso è il colore della seduzione nonché quello che più di tutti attira l'attenzione. A proposito dell’ossessione per le scarpe, permettetemi di dedicare questo post alla mia Lei, una delle più implacabili “shoealholic” che abbia mai conosciuto. Chissà mai che le possa essere di spunto per una riflessione…
A parte gli scherzi, penso ricordiate tutti la storia, in caso contrario ecco qui un rapido riassunto: una bambina molto povera (l’alter ego dello scrittore, anche lui cresciuto in una famiglia disagiata e, come se non bastasse, con problemi relazionali), costretta a camminare sempre scalza, riceve in dono un paio di scarpette rosse fatte di stracci, che lei finirà per venerare, letteralmente, come un cimelio. In seguito, divenuta orfana, viene adottata da una vecchia e ricca signora che le dona nuovi abiti e scarpe, buttando via quelli vecchi, tra cui le amate scarpette. Crescendo la bambina diviene bella, ma anche molto vanitosa e, in occasione della cresima, approfittando del fatto che la sua benefattrice è quasi cieca e non distingue bene i colori, la induce a comprarle delle scarpe da ballo rosse; ma, indossandole in chiesa, la ragazzina provoca la riprovazione dei fedeli e così si fa scoprire. Nonostante il divieto di indossarle ancora in luoghi di culto, lei le mette di nuovo proprio per la cresima, e talmente forte è la sua ossessione per le scarpe che non riesce a pensare ad altro e non presta la dovuta attenzione alla cerimonia. Ed ecco il monito: proprio all'uscita della chiesa, la nostra protagonista si mette a ballare senza sosta e riesce a smettere solo dopo essersi tolta le scarpe. Eppure passato il momento decide di ignorare la prova che evidentemente si tratta di scarpe incantate, e le indossa un’altra volta, così comincia a ballare e ballando si allontana da casa: è qui che il terrore l’assale, perché si accorge che le scarpette hanno preso il sopravvento e lei non riesce né a decidere dove dirigersi, né a togliersele e quindi è destinata a ballare per sempre. Ad un certo punto, vagando e danzando, danzando e vagando, la ragazzina torna a casa, ma solo per scoprire che la sua benefattrice è morta di crepacuore. Quando i piedi la portano nei pressi della casa del boia, che si trova (guarda caso) nel bosco, la ragazzina lo implora di tagliarle i piedi con l'ascia e lui l’accontenta. Le scarpette rosse, con i piedi mozzati della ragazza, proseguono la loro corsa infinita, mentre il boia costruisce delle protesi in legno e due stampelle per consentire alla ragazzina di camminare. E ora la bambina era una povera storpia, e doveva farsi strada nel mondo andando a servizio da estranei, e mai più desiderò delle scarpette rosse.
Che dire, è molto probabile che la mia passione-ossessione per il lato dark delle cose, l’orrore, il macabro e il bizzarro sia cominciata anche da qui... Infatti, quando qualche anno fa il regista coreano Kim Yong-Gyun (김용균) ne ha riproposto la storia in chiave horror, non mi sono lasciato scappare l’occasione di vedere il film. Tra l’altro lo scopo che mi prefiggevo era quello di soddisfare una mia irresistibile curiosità: capire in che modo l’Oriente avesse potuto recepire uno dei nostri classici per l’infanzia. Naturalmente il film di cui parlo è The Red Shoes (분홍신, Bunhongsin, 2005), anche se poi (e lo si vede benissimo anche nella locandina!) le scarpe nel film sono fucsia e non rosse (salvo poi diventare metaforicamente rosso sangue con lo svolgersi degli eventi). La scelta di censurare il colore rosso non è affatto casuale: solo un anno dopo la fine della guerra di Corea (1950-1953), fu infatti distribuito nel paese asiatico un famoso film inglese del 1948, vincitore di due premi Oscar (questo) in cui una ballerina, divisa fra l’amore e la danza, identifica la sua arte e il suo successo con le scarpette e finisce per danzare fino a morirne (un dramma morale chiaramente ispirato ad Andersen, quindi). Il titolo del film, allo scopo di evitare eventuali ripercussioni socio-politiche, fu localmente cambiato in “Pink Shoes”. Le scarpe fucsia in questo film sono evidentemente nient’altro che la piccola citazione di un passato meno sereno (sempre che si voglia definire “serena” la situazione coreana attuale, sempre in bilico tra progresso e regresso).Ho quindi visto il film e devo dire che l’unico elemento che ricollega il film di Kim Yong-Gyun alla fiaba di Andersen è il tema dell’avidità (simboleggiato appunto dalle scarpe, delle quali chiunque le veda brama il possesso) e dell’infausta sorte, la “punizione”, che tocca a chi cede a questo sentimento.
In altre parole il film va molto oltre il film stesso: il tema delle scarpette e il rapporto madre-figlia (che ricorda molto le protagoniste del già citato Dark Water) sono un’enorme metafora. Distinguiamo chiaramente una precisa accusa alla società contemporanea, ma anche la sofferenza di un paese diviso, che ha vissuto 35 anni di dominio giapponese e ancora oggi vive in silenzio l’incubo di un conflitto nucleare. Perché l’origine delle scarpette rosse (narrata in un flashback) viene contestualizzata nella Corea del 1944 occupata dai giapponesi? Un tardo tentativo di sottolineare l’equivalenza Corea/moglie-offended e Giappone/marito-offender? Sebbene originale nello spunto, qui The Red Shoes inizia a mostrare qualche segno di debolezza (ovvero, la maledizione deriva un fatto accaduto in passato e non dall’animo dei personaggi, e qui la morale della fiaba si perde) ma bisogna dire che è maledettamente efficace e coinvolgente, specialmente per alcune trovate visive come la neve rosso sangue, e non lesina in sangue e cattiveria, oltre che essere “confezionato” e recitato bene.