Scatole e docce.

Creato il 23 dicembre 2014 da Denise D'Angelilli @dueditanelcuore

Il sabato è il giorno giusto per riprendersi dall’hangover del venerdì sera, per andare a farsi le vasche al centro commerciale pieno di gente e lamentarsi del fatto che i tre quarti della popolazione della vostra città ha avuto la vostra stessa idea, per passare il tempo davanti all’armadio a decidere cosa indossare per uscire poi la sera, per aggiornare con calma la lista dei fallimenti o per litigare in macchina di pomeriggio e poi limonare tantissimo a vent’anni nei prati dietro casa. Ma è anche il giorno giusto per impolverarsi mani, vestiti e capelli e liberare casa propria da tutto ciò che non puoi lasciare ai nuovi inquilini. 

Tu chi sei? Chi cerchi? Questa è casa mia, chi cazzo sei tu. Ah non ti avevo riconosciuto ciao, ma che ci fai qui, ma non vivevi a Londra? Ah quindi adesso stai a Milano di nuovo, ah e che fai, ah fai l’artista, ma chi l’ha detto che faccio l’artista, mica io, certo che tu sogni, sei proprio come tuo padre, ah lo conoscevi? Ma chi cazzo sei? Scusa quel quadro è mio, anche quella sveglia, anche quei dischi, anche quella macchina fotografica. Faccio le scale, la mia camera puzza di chiuso e i ragni la usano per fare le feste, l’intonaco bianco del muro viene giù se per sbaglio lo sfioro ed è sempre stata troppo blu, il colore che odio di più. Smontano l’armadio, portano via gli scatoloni con scritto “Denise” e quelli con scritto “Gianni” e sembra tutto un cantiere, un po’ come la mia vita. Nel mio bagno non c’è nemmeno più la carta igienica, delle persone che non ho mai visto mi chiedono se possono buttare delle cose e no, non le potete buttare. La mia bicicletta di quando salirci sopra era il mio lavoro adesso è ricoperta di ruggine e ragnatele, stessa fine ha fatto la tua, ma non si possono buttare, ma cosa volete buttare, portatele via come tutto il resto, poi ci penserò, oggi non ce la faccio. Toh guarda, la macchina a pedali di quando ero al mondo da appena due anni e che ha visto più traslochi che sorrisi e io voglio vederci sopra mio figlio, un giorno, sfrecciare per casa come fosse uno dei Flinstones, ed ecco la scrivania che ha appena sei anni in meno di me ma non posso portarmela via così come il mio letto, la mia cassettiera, il mio specchio, la mia lampada, e allora la regalo a chi ho visto due volte nella vita e non fa nemmeno parte della mia famiglia ma dimentica, Denai, abituati e dimentica. In giardino adesso c’è il materasso della tua camera, la testata del tuo letto, quei lampadari orrendi che hai scelto in preda a chissà quale raptus di cattivo gusto, un energumeno scorbutico e sudato fa battute sul fatto che io non stia sorridendo, rispondo che non c’è un cazzo da ridere e mi sgridano perché ho detto cazzo, quindi nella testa mi ripeto cazzo cazzo cazzo cazzo cazzo e lo urlerei se non fosse che non ho le forze per litigare. Sono stata molto veloce, talmente veloce che sono già pronta per andare via, quindi saluto quello che vedo e che non mi è mai piaciuto, non salgo al piano di sopra, guardo l’ulivo, lascio le mie chiavi, e ciao, a mai più rivederci, tanto i vicini nemmeno m riconoscono più.

La doccia è il luogo perfetto in cui piangere, il luogo migliore del mondo. Se ci entri da sola non devi rendere conto a nessuno, se ci entri in coppia e non singhiozzi l’altra persona non si accorge di niente. Il doccino puoi sparartelo sulla faccia e l’acqua fredda o calda che sia si fonde con le lacrime e poi le prende per mano e se le porta via, puoi sederti per terra e aspettare che passi, intanto il vapore sale e si attacca sullo specchio che si appanna e così se non vedi gli occhi non hanno nessuna colpa. Gli occhi sono rossi lo stesso, la pelle è rossa lo stesso, puoi starci quanto vuoi, fino a che non tirerai su col naso e chiuderai l’acqua arrotolandoti in un accappatoio freddo. Apro una scatola, ci sono delle foto, sono tutte da buttare, sono appiccicate e puzzolenti e se provo a staccarle l’una dall’altra le rovino. Chissà se ci sono io, se ci sei tu, se c’è mia madre, se troverò i negativi e potrò farle stampare di nuovo, ma le foto non si tengono in una scatola su un balcone sotto l’acqua e l’umidità ma io non sapevo nemmeno che fossero lì. Ci sono dei documenti con la tua firma, dei bigliettini con la tua scrittura, le agende del 1997 di quando giornalmente scrivevi le ore passate con me. “Oggi io e Deny siamo andati al centro commerciale, siamo stati insieme solo tre ore, le vetrine e poi il gelato e infine le canzoni in macchina. Sono tornato a casa da solo”. Non ero ancora Denai e non ero ancora la tua coinquilina. Nel 1998 scrivevi che il ragù pronto faceva schifo. Nel 1999 che era bello avermi sempre con te. Scrivo a zio che c’è qualcosa che vorrei fargli vedere, le vedrò a Natale, ok, e anche quest’anno sarà il Natale con un piatto in meno a tavola, con un regalo in meno sotto l’albero degli zii, con un pezzo di cuore in meno nel petto per tutti. Chiudo tutto, trovo della polvere sui miei capelli, ho rotto i leggings con la catena della bicicletta, mi viene da piangere, e allora vado a fare la doccia.



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