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Scatta scatta. Qualcosa di buono resterà...

Da Marcoscataglini
PictureIeri, parlando con un attempato fotografo amatoriale, ancora legato alla pellicola e alla camera oscura tradizionale, mi sono sentito ripetere -per l'ennesima volta- che col digitale è tutto troppo facile: "basta scattare e scattare ancora, e alla fine qualcosa di buono si tira fuori!". Come a dire: chi usa il digitale bara, non è sportivo, si limita a premere il pulsante di scatto, nella beata speranza che tra le migliaia di foto salvate sulla scheda di memoria ci sia uno scatto decente, da inviare al prossimo concorso. E' un ragionamento oramai un po' stantio, ma pervicacemente diffuso, che mi ha portato a fare un paio di riflessioni che vorrei condividere con voi, per cominciare l'anno nuovo con qualche spunto da approfondire nei mesi che abbiamo davanti.
La prima riflessione è quella che, dopo almeno 5-6 anni di dominio del digitale nel mondo della fotografia, ancora ci sono resistenze di tipo ideologico alla sua completa accettazione. Nel mondo della Fine Art (o dell'Arte vera e propria), il ricorso alle tecniche di ripresa e ancor più di stampa digitale sollevano perplessità e dubbi. Da un lato c'è l'immaterialità della foto digitale (di fatto composta solo da un grumo di numeri codificati, invece che da una solida pellicola con granelli di argento), dall'altro il fatto che nel digitale non esiste davvero un originale: le foto possono essere moltiplicate e distribuite in migliaia di originali perfettamente identici, copie assolutamente indistinguibili tra loro. Questa è una caratteristica molto amata da quelli che producono immagini per condividere ricordi ed emozioni, o per generare notizie da pubblicare sui giornali, ma invece assai poco apprezzata da chi colleziona fotografie di grandi autori e vorrebbe essere se non l'unico, almeno uno dei pochi possessori delle stampe originali (cioè vintage, stampate direttamente in camera oscura dall'autore). La democraticità innegabile del digitale, insomma, diviene un serio ostacolo ideologico quando entriamo nel mondo dell'arte, che è tutt'altro che democratico, da questo punto di vista. In verità, però, se noi guardiamo alla produzione di fotografi che hanno iniziato la loro carriera qualche decennio fa e che si sono poi (giocoforza) convertiti al digitale, non vediamo assolutamente differenze, o salti. Non c'è soluzione di continuità tra la loro produzione pre e post digitale. Il modo di guardare agli eventi, ai paesaggi, alla natura rimane lo stesso, il modo di esprimere le proprie emozioni è sempre identico. Il digitale mette a disposizione ulteriori possibilità (pensiamo all'HDR, al fotomontaggio, alla correzione dei colori, alla conversione in bianco e nero controllata, ecc.), che possono anche essere assolutamente ignorate, continuando a scattare le foto nel modo e con la filosofia precedente. Cambia solo il sistema con cui le immagini vengono gestite successivamente, ma per il resto è possibile mantenere l'intervento elettronico al minimo. Questo porta ad una nuova suddivisione dei fotografi, tra coloro che utilizzano le tecniche digitali per produrre le immagini che già realizzavano prima in pellicola, e i fotografi che sfruttano il digitale per dar vita a nuove forme espressive, impossibili (o molto difficili) da realizzare senza la tecnologia digitale. Ma certamente questi ultimi tutto fanno, tranne scattare a casaccio sperando di ritrovarsi poi con una foto buona!
Altra considerazione è quella relativa a una tecnica molto utilizzata un tempo nei corsi di fotografia (di livello elevato), e cioè quella dello scatto casuale. In pratica si invitavano i corsisti, in genere fotografi esperti in cerca di una nuova consapevolezza (sic) a prendere una fotocamera (meglio se compatta, ancora meglio una usa e getta) e a scattare senza inquadrare e senza pensare, lasciandosi guidare dal flusso delle emozioni e dal caso. Un esercizio vagamente zen. C'era sempre, nel momento in cui si analizzavano le immagini, la sorpresa di trovare, nel cumulo di immagini da cestinare, qualche perla, fotografie di grande intensità, che però -per così dire- si erano scattate da sé. Questa tecnica (che alcuni fotografi hanno poi assunto come proprio modus operandi standard) è stata ripresa e portata al successo dai Lomografi grazie al famoso slogan -di cui abbiamo già parlato- "Don't think, Shoot!" (non pensare, scatta!). Lo scopo di questa filosofia di ripresa, se così possiamo chiamarla, è quella di trovare un modo più istintivo e meno intellettuale di realizzare le proprie immagini, opponendosi dunque a un certo modo di intendere la fotografia molto più cervellotica, leccata, ragionata. Sono certo che è questo modo di fotografare, che ha ripreso un certo vigore (anche tra chi non è un fotoamatore o un professionista) grazie alla diffusione delle compattine digitali -con le quali si evita lo spreco di pellicola- ad aver generato la convinzione che sia possibile scattare a caso per ritrovarsi con una foto da concorso. Purtroppo la cosa è impossibile. In verità, un bravo fotografo può realizzare in questo modo delle immagini strepitose, o comunque molto interessanti. Ma si tratta appunto di un bravo fotografo: la sua mano, la sua mente, la sua anima, o qualsiasi altro elemento del suo essere vogliate prendere in considerazione, si allineano in modo armonico (per dirla con Cartier-Bresson, un maestro della fotografia istintiva e "casuale"), e anche senza inquadrare è tutto l'insieme a creare una bella foto.  Chi l'ha detto che solo con gli occhi e la mente si possano creare belle foto? Sostenere invece che il ragazzino che ha ricevuto la sua prima fotocamera digitale in regalo per Natale possa, pur a digiuno di tecnica e filosofia fotografica, andarsene in giro scattando a casaccio, ritrovarsi poi fra le mani una foto da primo premio, significa credere nei miracoli, o nelle vincite milionarie alla lotteria. Tutto è possibile, ma certo avviene assai di rado!

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