Ve lo volevo presentare. Magari a voi non importa niente, però esiste. È là. Sono passati quasi due anni dal giorno in cui ho saputo che qualcuno sarebbe stato costretto a pubblicarmelo, quel racconto breve che è solo l’inizio della mia vita, la mia vita che dovrà essere un romanzo.
Ve lo giuro: è brutto. Bruttissimo. L’ho riletto duemila volte, e non riesco a trovarci niente di buono. Eppure, ogni volta che arrivo alla fine, è sempre là, una lacrima fa capolino tra le ciglia, e mi ricorda che, per quanto lo stile sia infantile e forzato, quella storia raccontata è ancora un pezzo di me. Riesce a farmi male e a commuovermi, riesce a ricordarmi chi sono, per quale ragione mi comporto così, adesso. È capace di farmi tornare in mente che so provare delle emozioni fortiforti, e che so raccontarle.
Ho raccontato il Parolaio.
Quindi, c’è il mio nome su una copertina. Diobuono, hanno ragione quando dicono che l’editoria in Italia è allo sfacelo.