Scene casuali da un matrimonio

Da Paperoga

Se uno non ha il fisique-du-role, certo non se lo può dare. Io in giacca e cravatta semplicemente non sono credibile, è meglio che me ne faccia una ragione (e me la sarei anche fatta, se ogni tanto qualche obbligo sociale non facesse capoccella e mi condannasse a vestirmi come Michael Corleone).
Prova ne è che prima dell’inizio della messa che avrebbe impalmato mio fratello, io vagavo per il borgo ligure tanto caro a byron senza la giacca, ovvero in camicia cravatta e pantaloni. I conoscenti che mi incontravano boccheggiante per la sete  mi facevano complimenti del tipo: “sembri un mormone, ti manca solo il caschetto da ciclista”, oppure “sembri un impiegato di banca a fine turno” (manco a metà turno, orcocane), altri semplicemente sogghignavano mentre altri ridevano a crepapelle.
Durante la messa stavo ritornando allo stato liquido. Avevo le allucinazioni. Sentivo il prete dire frasi assurde come  “il Signore Iddio ci ha fatto dono del sudore“, ovviamente mai pronunciate, e durante l’iniziale cerimonia dell’aspersione dell’acqua santa mi sono sentito auto-mormorare, protendendomi verso il prete, un “aspergimi tutto, chè ho molto sudore“, deisderando che il buon chierico tirasse fuori dei gavettoni di acqua santa per benedire i peccatori disidratati come me.
Mio fratello Pfaff stava combinato peggio, mi sussurrava accanto frasi insensate minacciando di svenirmi addosso. I borbottii fraterni erano interrotti dallo sguardo severo di Copeland che aggrottava la sopracciglia minacciando muto di romperci il culo se non la piantavamo con quel casino. Durante lo scambio della pace, ho intercettato il sudore di una quindicina di persone chè pareva di dare la mano a delle uova sode sgusciate.
Al momento della comunione, panico tra me e Pfaff: “certo sarebbe bene che almeno uno dei due testimoni dello sposo la facesse” fa lui. “boh, anche no” dico io. “dai la faccio io, però non mi sono confessato...” “Ed io ho perso la fede da circa un quindicennio: fai un  po’ te. Che volemo fa?” Pfaff un secondo dopo è lì che fa la fila.
Usciti dalla chiesa, il solito frusto rito del riso lanciato, mentre i gabbiani e i piccioni volteggiano come avvoltoi sulle nostre teste già pregustando una sana spazzolata di cereali. Io col mio sacchetto mi apposto su una roccia sopra sposi ed ospiti, e comincio a lanciare un chicco di riso alla volta, per circa mezz’ora. Uno in faccia alla sposa, un altro sui capelli dello sposo, un altro dentro la camicetta di un’invitata, un’altro ancora sul cranio pelato di mio padre, e poi ancora e ancora, sempre uno alla volta. Continuerò a farlo anche durante il pranzo, fino a che minacce di morte plurime e un tentativo di linciaggio della folla mi condurrà a lasciare il mio sacchetto con circa 300 chicchi ancora inutilizzati.
Durante il pranzo ho bevuto una bottiglia di vino, sudandone i singoli bicchieri nel momento stesso in cui li seccavo. Era un vino rosso fresco e leggero, e non ha tradito dopo con mal di testa o sonnolenze. Ho cercato di prendere il bouquet ma mi è stato sconsigliato perchè dicono che in queste occasioni le donne nubili ultratrentenni non abbiano molto senso dell’umorismo e pestano a sangue il celibe ultratrentenne che vuole fare lo spiritoso. All’apertura dello spumante ho fatto un paio di brindisi in rima, ma non sono stati molto apprezzati.
La festa serale era in un ameno campeggio della Lunigiana. Sulla spianata di un piccolo anfiteatro, il gruppo di Copeland aveva già predisposto tutto per un concerto dal vivo. Poco lontano, la cantante predisponeva aperitivi. Dopo essermi cambiato e messo finalmente in jeans e maglietta, ho cominciato la serata parlando di politica ed attualità con parenti ed amici, saggiando alcuni rum e cola ma senza accanimento perchè non amo troppo ste robe. D’improvviso, la sposa mi trascina al centro delle danze e senza un perchè mi trasformo in DiscoPaperoga. Ho già descritto in altri lidi il mio rapporto con il ballo, riassumibile con un “mi piace ma non ci riesco” non diversamente che  da un “vorrei ma non posso”. Beh, dimentico di ogni inibizione per tre ore tre divento il tarantolato della festa, mi piazzo sulla base di un tronco d’albero abbattuto, sovrastando band e pubblico, e semplicemente sono DiscoPaperoga il cubista. Pezzi rock, pop, mi faccio possedere dal ritmo e mi dimeno, sperando che il pubblico non osservi. Invece osserva, fotografa, riprende. Un giorno troverò il mio video in qualche sito metrosexual. Di fronte a quell’inattesa esibizione la mia famiglia ha sgranato bocca e mascella. Pfaff se la rideva stranito, Copeland dalla batteria non riusciva a nascondere la meraviglia (o il disgusto), Vlad a pochi metri da me sedeva e mi guardava ipnotizzato. A metà dell’esibizione la platea si era divisa: chi mi conosceva bene riteneva fossi semplicemente ubriaco; chi mi conosceva meno bene dava probabilmente per scontata una natura omosessuale finalmente slatentizzata. Io, semplicemente, stavo bene.

La mattina dopo ci si è alzati presto, a dispetto di chi mi riteneva ciucco. Io e Vlad abbiamo vagato per i boschi vicino al campeggio, e l’anfiteatro della sera prima che mi aveva visto preso dalla febbre del sabato sera era spoglio e pieno di rudo (tra cui un happy meal di 24 ore prima, chissà da dove proveniente, inumidito dalla rugiada mattutina, che Vlad ha addentato condannandosi alla tenia se non a ben di peggio).

Alla fine quel che ti resta del matrimonio di tuo fratello è una contentezza leggera, scampoli di felicità rara, misti ai soliti retropensieri che mulini senza accorgertene mentre sei in chiesa, che ti guardi attorno spaesato cercando di dare un nome a quello che sta accadendo, e quel che accade è che guardi, da spettatore interessato, il tentativo umanissimo e commovente di dare una forma a quello che rotola costantemente dal piano inclinato, lo sforzo sovraumano di rendere tutto quello che accade meno liquido, meno labile, il darci dentro di polmoni e di muscoli impedendoti di dare ascolto a quella voce che ti dice che non solo è tutto precario, casuale, denudato di senso, ma che addirittura è tutto sempre potenzialmente pronto ad esplodere, qualsiasi dimensione tu possa dargli, qualunque sforzo tu possa impegnare, la vita è nitroglicerina, liquida sfuggente e pronta a deflagrare. Ma se si ignorano queste voci distruttive, e si dà ascolto anche alla propria disperazione, quella buona, quella sana, allora si è capaci di rischiare, come pazzi, come formiche atomiche, e questi giorni non sono solo simboli, ma moniti, non sono solo forma, ma un messaggio sotto pelle che passa e ti scuote, ti commuove, e alla fine ti fa anche ballare nei boschi, per una volta e finalmente senza peso.

Auguri, Ste.



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