I titoli dei libri – e le traduzioni dei titoli – mi hanno sempre incuriosito. Questo, per esempio, in originale fa “Los pichiciegos”, che sarebbe una varietà argentina di armadilli, in qualche varietà dialettale dello spagnolo parlato nell’area di Buenos Aires. Il titolo giusto sarebbe quindi “Gli armadilli” e, mentre su due piedi pensavo che non fosse adatto, dopo ho capito che andrebbe sì bene, ma che Scene da una battaglia sotterranea funziona di più. Se sia diritto del traduttore o dell’editore in un’altra lingua scegliere un titolo migliore, è una questione che potrebbe scatenare un dibattito infinito, ma che questo romanzo sia costruito a scene è un dato di fatto, con tutto ciò che ne discende. Ovvero, prima di tutto, che ti restano impresse in testa soprattutto alcune immagini memorabili, mentre il complesso, alla fine, ti sfugge un po’. Ma tanto del complesso poco ti importa, perché in fondo non si tratta altro che di un manifesto narrativo contro il nonsenso della guerra. La storia, ambientata durante la guerra delle isole Malvinas – o Falkland, a seconda di chi tifate – segue le vicende di alcuni soldati argentini che disertano, imbucandosi in un sistema di tunnel scavati sotto una montagna e organizzando turni di recupero provviste e turni di guardia. È una vicenda fatta di vicinanze forzate tra persone a volte molto diverse, piccoli espedienti per sopravvivere e brevi puntate all’esterno che ogni volta restituiscono lampi incancellabili sull’assurdità della guerra, tinte di quella vena surreale così tipica della grande letteratura sudamericana: ci sono plotoni congelati dal freddo a formare una specie di scultura a perenne memoria degli eventi; squadriglie infinite di bombardieri che si schiantano contro l’orizzonte come se fosse una parete impenetrabile; persone che parlano con le pecore e pecore che muoiono come soldati, saltando su una mina. C’è ironia, disperazione, passione. E c’è tanta, impareggiabile, scrittura.
Scene da una battaglia sotterranea, Rodolfo Fogwill (Sur, 168 pp, 15 €)
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