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Scene di ordinaria ingiustizia nella Russia della restaurazione putiniana

Creato il 09 luglio 2013 da Matteo
Un giorno nella camera di tortura
Un giorno al tribunale cittadino di Mosca per il caso dei prigionieri di piazza Bolotana [1]
06.07.2013
L'alto edificio bianco del tribunale cittadino di Mosca, decorato da una cupola e da una bandiera, si innalza sul paesaggio cittadino circostante. E intorno c'è la consueta vita terra terra. Risuonano i tram. Proprio davanti al solenne ingresso del tribunale una pompa di benzina smercia attivamente carburante. Nelle baracche di mattoni a un piano, che spalancano le porte per il caldo, si trovano garage di meccanici e la tavola calda "Tandem" [2], un po' più avanti c'è la "Chincaglieria" [3], il cui emblema da lontano avevo preso per un teschio con le ossa. Ma si è rivelato un piatto con cucchiaio e forchetta incrociati. Le insegne chiamano dal gommista e dagli avvocati. E in tutto questo si indovina il modesto percorso di vita di una persona del quartiere di Preordinamento[4]: ha aggiustato la macchina, ci ha montato amorevolmente le gomme, poi è entrata in causa, ha preso un avvocato, si è goduta uno spiedino al "Tandem" e ha finito il suo percorso al cimitero Bordolese, la cui modesta cancellata è a un centinaio di metri dal tribunale…

L'udienza del tribunale per il caso dei prigionieri di piazza Bolotana nell'aula 338 inizia con la protesta dell'avvocato Gemellando, che dice che di nuovo non gli è riuscito dialogare con il suo assistito. "In queste condizioni non si può difendere!" L'avvocato Kljugvant si alza e con voce ben impostata si rivolge al giudice raccontando come ha cercato di trasmettere nella gabbia due documenti al suo assistito, ma ha ricevuto un rifiuto dal capo delle guardie. Il difensore Semënov ha la stessa storia: qui, nell'aula del tribunale, le guardie si rifiutano di trasmettere documenti nella gabbia e inoltre le stesse guardie stanno in piedi vicino e ascoltano attentamente tutto ciò che si dicono l'avvocato e il suo assistito. Come possono lavorare gli avvocati dove non c'è un dialogo libero e dove un orecchio estraneo è attento a ogni conversazione della difesa? E' un processo farsa.
Ed è anche un processo di tortura. All'improvviso, mentre già scorrevano domande e risposte, nella gabbia si alza Nikolaj Kavkazskij e cerca di raccontare dei "bicchieri", in cui sono tenuti gli imputati fuori dall'aula del tribunale. Riesce a dire solo che questi bicchieri misurano un metro per un metro e mezzo, quando il giudice lo interrompe con atteggiamento di noia stanco e un po' sprezzante: "Questo non ha a che fare con l'istanza…" Il processo va avanti, ma allora si alza Jaroslav Belousov: "Vostro onore! Il punto di raccolta misura un metro per un metro e mezzo, là ci tengono a due a due, il pavimento e i muri sono sporchi e ieri ci abbiamo passato 8 ora. Vostro onore, speriamo nella Sua comprensione!» Attenzione e comprensione zero, come se nessuno avesse detto niente. Passa ancora un'ora e adesso, interrompendo il corso del processo, nella gabbia si alza Akimenkov, ben rasato e con una vista scarsa: "Voglio denunciare condizioni di detenzione da tortura. In attesa del processo ci tengono in un punto di raccolta. E' molto sporco ed è buio là. Il cellulare può stare qualche ora presso il SIZO [5]… Capitiamo in cella alle 12 di notte… Sono già tre giorni senza cibo caldo… Tenendo conto che ci attendono centinaia di udienze… E' un piano logorante… Le nostre condizioni di permanenza sono disumane".
Parla in una fessura della gabbia con voce sorda e caparbia, nonostante che il giudice faccia un tentativo di interrompere anche lui. Ma è impossibile interrompere una persona che guarda dritto avanti a se con occhi di odio ed è piena di decisione di parlare fino alla fine. Cosa può fare un giudice? Mandare i corpi speciali nella gabbia perché davanti agli occhi del pubblico pieghino Akimenkov in tre e gli tappino la bocca? Il giudice si rassegna alla protesta ufficiale del detenuto, poi si informa freddamente: "E' tutto?" – e come se niente fosse porta avanti il processo.
Sedendo su una panchina nella sala bianca senza finestre fortemente illuminata, osservo da venti metri di distanza il giudice Natalija Viktorovna Nikišina. Non è impassibile, in lei c'è una fredda gentilezza, un'improvvisa cordialità e l'ironia di una signora di classe, che parla agli avvocati come si parla ai bambini rumorosi in classe: "Rispettatevi a vicenda, ascoltatevi a vicenda!» Ma come può ella, un giudice, farsi indifferentemente entrare da un orecchio e uscire dall'altro i racconti degli imputati su condizioni da tortura? Come può in generale una persona fare entrare da un orecchio e uscire dall'altro quando un'altra persona le dice: "Mi aiuti! Mi stanno torturando! Davanti ai suoi occhi! Sotto il suo naso!» Come donna, anche se porta un mantello nero con il colletto bianco e siede sotto lo stemma della Russia, può essere freddamente indifferente a ciò che le dicono persone tormentate in gabbia? E due sue parole, dette dalla cattedra di giudice, sarebbero sufficienti per permettere agli avvocati di lavorare senza barriere e far cessare le torture sui prigionieri. Ma non ha queste parole.

Però ne ha altre: "La corte non vede fondamento… La corte ha il diritto… A partire dall'articolo… Della disposizione… Periodo di detenzione agli arresti fino al 24 novembre… Su qualsiasi base pretestuosa…» Tradotto in italiano [6] significa: mi occupo solo delle procedure in aula, ma cosa si fa con le persone là fuori dall'aula non mi interessa assolutamente. Vi tormentano? Non potete respirare? C'è la tortura con la privazione del sonno nel SIZO? Non vi danno da mangiare? Siete in cella senza frigorifero e ventilatore (così sta ora Artëm Savelov)? In gabbia è impossibile trasmettere anche una bottiglietta d'acqua? La mamma non può avvicinarsi al figlio? E io che devo fare qui? Che hanno a che fare tutti questi vostri penosi desideri umani con le sottigliezze processuali di questo grande caso e con il compito chiaramente indicato di questa corte? Il giudice serra le labbra e tiene bellamente nella mano destra come una piccola frusta una lunga penna dorata.
Dietro un grande tavolo davanti alla gabbia con i prigionieri di piazza Bolotnaja, spostando lentamente i loro corpi pieni su morbide sedie verdi, siedono due donne-procuratori. Per interi giorni guardano attraverso il vetro della gabbia dieci persone tormentate, semi-inferme per la lunga reclusione, la mancanza di aria, di sonno e di cibo. Tutta l'attività al processo di queste due donne – rappresentanti dello stato! – sta nel restringere ai detenuti le possibilità di difesa e di conseguenza incarcerarli. Alla situazione di questi infelici, destinati a tendere l'orecchio per sentire di là dal vetro di cosa li accusano senza avere né un tavolo, né carta per gli appunti, che non osano andare in bagno, schiacciati e masticati dalla prigione come una qualche massa umana impersonale queste non fanno alcuna attenzione. Se ai rappresentanti dello stato sono indifferenti le torture e le sofferenze dei cittadini, perché c'è questo stato?

Alessandro II una volta ordinò di essere rinchiuso per un'ora in una cella perché voleva capire cosa sentissero le persone che incarcerava per tutta la vita. Il grande principe Nikolaj Nikolaevič una volta andò alla casamatta della fortezza dei santi Pietro e Paolo [7] per parlare con Kropotkin [8]. Questi ingenui esempi del lontano passato russo sembrano un idillio sullo sfondo del grigio, automatico e spietato sistema di giustizia moderno e di queste due signore grigio-azzurre, una delle quali ostenta in tribunale minigonna, gambe nude e tacchi alti, come non capendo che un abito così provocante è inopportuno in un luogo di pena. Potrebbe a loro, a queste rappresentanti dello stato moderno, pagate tra l'altro anche con le mie tasse, venire in mente per una migliore comprensione del processo di scambiare per un giorno il posto con i prigionieri di piazza Bolotnaja e provare l'aria viziata della gabbia? Non vorrebbero, seguendo gli insegnamenti dello zar, sedere almeno un'ora non al loro tavolo spazioso, dietro cui si possono mettere così comodamente le gambe e intrecciare così ricercatamente le dita, ma trovarsi per 8 ore in un bicchiere sporco, impregnato di sudore e di dolore e ricoperto di sporcizia appiccicosa? Poiché le persone che non capiscono cosa fanno alle altre persone non possono giudicare con giustizia, né accusare con onore.
Scusi, Vostro onore, ma ogni volta che Lei si rifiuta di ascoltare le condizioni di detenzione da tortura delle persone che giudica, sento dietro e di fianco, dalle panche vicine, spasmodici, involontari, silenziosi gemiti di insulto. E muti profondi sospiri. Sono i familiari dei prigionieri, le loro madri e i loro padri, ma ci sono qui anche le sorelle delle madri, un nonno, le mogli e le amiche. E quando sento questo alla quinta o sesta ora di udienza, dopo le innumerevoli domande poste e respinte, dopo l'indicazione degli articoli, le repliche degli avvocati, le istanze e altra routine del processo, all'improvviso comincio a vedere non la forma giuridica e la superficie del caso, ma la sua essenza ed essa consiste nel fatto che in questo processo si tormentano premeditatamente le persone.

Non c'è una pena del genere – sedere in gabbia senz'acqua in un giorno afoso e arroventato, ma ci siedono. Non c'è una pena del genere – sedere a due a due in una stretta cassa sporca, ma ci siedono. E nessuno li ha ancora condannati ad alcuna pena. E non si può, non riesci a scacciare questo dicendoti che ti occupa di alta giurisprudenza e che tutte queste cose sporche e tormentose non hanno niente a che fare con la verità della legge.
Ho chiesto a un avvocato perché il pubblico ministero si comporta con pignoleria, respingendo tutte le istanze dei prigionieri, tra cui anche quelle che sono legali (per esempio, introdurre nel caso un nuovo avvocato). "Per principio. Per fare schifezze!" – subito mi ha spiegato questa persona esperta e ha aggiunto: "Mi creda, in questo caso è tutto molto semplice!" Capisco che è semplice. Ma non si ha voglia di questa volgare semplicità, ce ne siamo già sorbiti una ciotola piena e si ha voglia di provare rispetto per un tribunale e per un giudice. Ma il giudice deve fare qualcosa per questo e nel passato ci sono esempi per lei. Nella storia della giustizia russa ci fu un caso in cui il rappresentante del tribunale circondariale di Kiev Nikolaj Grabor si rifiutò di partecipare a un processo che riteneva disonorevole e per questo processo politico, che il potere chiamava ipocritamente penale, toccò portare un procuratore da un'altra città. Questo fu nel 1911 ed era il caso Bejlis [9].
...Il sottufficiale di polizia, agente della 1.a compagnie del 2° plotone dell'OMON [10] di Mosca Andrej Archipov, va al banco vicino al tavolo del giudice. Ha una figura massiccia, il cranio rasato, una maglietta della Adidas non fresca dopo un intera giornata a sedere in tribunale, scarpe da ginnastica consumate e la cinghia nera della borsa gli sottolinea diagonalmente il petto gonfio. Il 6 maggio 2012 era inizialmente nel cordone che si muoveva dal ponte Bol'šoj Kamennyj [11] a piazza Bolotnaja, poi fu designato per il gruppo di cattura, con un collega riuscì a catturare un dimostrante, ma poi prese un pezzo di asfalto nel mento e andò alla macchina del "Pronto Soccorso", dove gli unsero la ferita con tintura di anilina. Alla sera in ospedale gli cucirono la ferita. Adesso non ha tracce di punti. Egli stesso definisce il danno subito "leggero". Non c'è alcun documento clinico che confermi il suo racconto.

Stando dietro al banco, il ragazzo pena e soffre. In aula si sforza di non guardare gli imputati, guarda in basso. Talvolta resta a lungo con gli occhi vuoti, non è in grado di rispondere a una domanda. A molte domande risponde: "Non ricordo". Poi viene il momento dell'avvocato Makarov e questa grossa persona con una camicia estiva azzurra e occhiali severi tiene in moto l'agente dell'OMON per 45 lunghi minuti. Lo pressa con domande su tutto: sul piano di servizio, sui mezzi di difesa di un agente dell'OMON, sul movimento dell'OMON in piazza il giorno 6 maggio 2012, sull'arrestato. "Come l'avete arrestato?" – chiede l'avvocato. "Ci siamo avvicinati. Ci siamo presentati. Gli abbiamo chiesto di venire con noi". L'aula semi-svenuta rimbomba di risate. Quel giorno in piazza ci fu un pestaggio e gli arrestati furono immobilizzati, tirati via, trascinati, picchiati.
"Siete andati a disperdere la gente o a difenderla? Difenderla? Da chi?" – chiede il caparbio e molto fine avvocato Makarov.
"Da se stessa", – risponde l'agente dell'OMON Archipov, abbassando gli occhi. In aula si ride di nuovo. Anche sul suo ampio volto c'è una parvenza di sorriso.
E' stato dichiarato parte lesa dall'accusa, ma presto si scopre che è del tutto incomprensibile perché sia nel caso. L'agente dell'OMON Andrej Archipov non vide chi gli tirò il pezzo di asfalto. In piazza Bolotnaja non vide neanche nessuno dei prigionieri di piazza Bolotnaja. E se si possono trattare in qualche modo le intonazioni delle sue poco complesse risposte e le sue pause, quando tace in oscura perplessità, scegliendo le parole per rispondere a una contorta domanda di un avvocato, allora bisogna supporre che provi qualcosa come una scomodità davanti a chi siede in gabbia e non sia contento di essere in tribunale e non sia affatto contento che in tutto questo si sia cacciato per una piccola ferita unta di tintura di anilina. Si definisce "vittima dei fatti del 6 maggio, ma non per colpa di queste persone".
"Si sente vittima di questo gruppo di persone?" – "No".
"Ha rimostranze nei confronti di questa persona?" (L'avvocato, indicando Stepan Zimin.) – "No, non ne ho".

Non ha rimostranza nei confronti di alcuna delle 12 persone imputate nell'aula del tribunale. Non sa chi gli lanciò il pezzo di asfalto, che scivolò lungo la visiera del casco Jet e lo colpì al mento. Quelli che siedono in gabbia sono accusati di avergli causato un danno, ma questi non lo riconosce. Alla fine si alza l'avvocato Arganovskij e chiede con sincero stupore: "Ma come ha fatto in generale questa persona a diventare parte lesa in questo caso?"
"Revocare la domanda!"
Ma perché all'improvviso "revocare la domanda", Vostro onore? Non c'è alcun fondamento per revocare questa domanda degli avvocati e altre simili a questa. Se le revocano, sorge l'impressione: il giudice non vuole sapere la verità. Ma è molto importante sapere se qualcuno ha designato l'agente dell'OMON Archipov parte lesa, se qualcuno gli ha ordinato di diventarlo. Saša Duchanina si è avvicinata all'essenza del caso quando ha chiesto: "Ha scritto Lei la denuncia come parte lesa?" – "Non ricordo!"

Non sono un reporter giudiziario e siedo in un'aula di tribunale per la prima volta nella vita. Non ho mai visto con i miei occhi il lavoro degli avvocati. Qui, al tribunale cittadino di Mosca, ho visto come sotto la fitta grandine di domande avvocatesche si schiaccia e si scioglie la cosiddetta parte lesa e come dopo un'ora di lavoro degli avvocati in qualche modo naturalmente e da sola all'improvviso in aula sorge la verità. Gli avvocati, che siedono dietro due file di tavoli nell'aula bianca senza finestre, hanno dimostrato splendidamente e tra l'altro in modo semplice e preciso che l'agente dell'OMON Archipov non è parte lesa in questo caso e allora, nella mia ingenuità, all'improvviso mi sono riempito di gioia euforica ed ero certo che l'istanza comune di avvocati e prigionieri sul suo spostamento da parte lesa a testimone non si potesse non accogliere.
Adesso la parola era al pubblico ministero. Si è alzata il grosso procuratore-donna e ha detto di no, che era contraria perché non si poteva e perciò non c'era bisogno. Questa non è una diretta citazione del suo discorso, ma non è molto più breve del discorso stesso. A tutto lo splendore del lavoro degli avvocati, a tutto il caparbio e accurato lavoro di 45 minuti dell'avvocato Makarov, a tutta la forza intellettuale di quasi due decine di teste di avvocati sono state contrapposte alcune parole fiacche, che ha pronunciato verso il giudice un procuratore in minigonna. E si è seduta, facendo posto all'intervento del giudice. Non era stabilito che intervenisse più nessuno in questo momento, solo il duetto conclusivo di pubblico ministero e giudice… ma terribile, scurito dalla prigione, con uno scuro cranio nudo Vladimir Akimenkov all'improvviso si è alzato di nuovo e seccamente e nervosamente ha gridato ai procuratori attraverso l'aula: "Non vi vergognate a venir fuori con una base del genere?» E quanta furia non trattenuta e disprezzo c'erano già nel suo grido.
Di solito il giudice prende tempo per riflettere su un'istanza. Ma qui, per risolvere una questione che che aveva un enorme significato per il corso del processo, non si è messa a pensare. Questa questione si sarebbe potuta risolvere in modo che tutto il processo iniziasse gradualmente a tornare dai binari curvi della menzogna alla via della verità. Ma il pubblico ministero con l'importante espressione di un volto che non ha mai compassione per nessuno non ha fatto in tempo a sedersi che il giudice Nikišina con una qualche gioiosa e per qualche motivo allegra rapidità ha deliberato: respingere l'istanza di avvocati e imputati per lo spostamento dell'agente dell'OMON Archipov dalla parte lesa ai testimoni.
Aleksej Polikovskij, "Novaja gazeta", http://www.novayagazeta.ru/politics/58944.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni)
[1] "Del Pantano" (che c'era prima che la costruissero), luogo delle più importanti manifestazioni dell'opposizione e della repressione governativa. [2] "Tandoor". [3] "Luogo dei chinkali", tortelli georgiani. [4] Nome colloquiale della piazza Preobraženskaja (della Trasfigurazione) nella zona centro-orientale di Mosca. [5] Sledstvennyj IZOljator (Carcere di Custodia Cautelare). [6] "In russo" (ovviamente) nell'originale. [7] Fortezza di San Pietroburgo. [8] Pëtr Alekseevič Kropotkin, anarchico russo. [9] Mendel' Tev'evič Bejlis, l'ultimo ebreo accusato (poi assolto) di omicidio rituale. [10] Otdel Milicii Osobogo Naznačenija (Sezione di Polizia con Compiti Speciali), sorta di Celere russa nota per la sua durezza. [11] "Grande di Pietra", ponte del centro di Mosca.

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