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Scherzo da prete

Creato il 27 gennaio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Revealed è Opera originale di Chatterly *

Scherzo da prete

di Iannozzi Giuseppe

Fernando gettò una fredda occhiata all’intorno soffocato nel buio più pesto.

Non s’udiva alcun umano suono, solo il pesante respiro del compagno di cella, di quel grasso giovane seminarista, e quello lì era tutto fuorché un essere umano. Mangiava e s’abbeverava come un porco, il piatto lo spazzolava più e più volte con la lingua porcina, poi ruttava e rideva, e solo alla fine sputava un “grazie a Dio!” Era un porco, consapevole di far ribrezzo e per questo ancor più portato a mostrare senza reticenze la sua natura, scusandosi appena quando una scoreggia troppo fracassona o un rutto mefitico gl’uscivano con veloce fretta dai pertugi: “Perdonatemi, ma tutto quello che viene dal corpo umano, meraviglia da Dio creata, è divina, o no?” Nessuno osava controbattere: in teoria il seminarista aveva una porca santa ragione, cosicché non uno metteva in discussione che vomito e merda fossero agl’occhi di Dio inequivocabili segni della grandezza che Egli aveva donato ai suoi figli. Imbarazzati anche i porporati più anziani chinavano il capo impotenti, tossendo con la mano scheletrica davanti alla bocca, ma di più non potevano fare davvero.

Il seminarista dormiva profondo. Fernando aveva più d’un motivo per odiarlo, ma bastava il solo fatto che in quel giovane grosso e grasso, pasciuto e scostumato, vedesse il simbolo della corruzione. Poi non era per niente casto: lui lo sapeva che andava per postriboli, l’aveva visto coi suoi occhi ridere insieme a una vecchia maitresse contrattando lo spicciolo, l’aveva visto entrare dentro il rosso fiammingo delle pesanti tende a mascherare le Prostitute di Babilonia, aveva udito le risate delle femmine. Un essere così non era degno di servire l’Altissimo. L’invidia, più della rabbia, gli rodeva il fegato. Fernando doveva fargliela a tutti i costi. Ad un certo punto il seminarista cominciò a biasciare nel sonno, e fu allora che gli venne l’idea. Era un piano semplice, seppur disgustoso, ma l’avrebbe attuato per amore dell’Altissimo: così si giustificava di fronte alla sua coscienza, che nuda già gli si mostrava puntandogli l’indice contro, chiedendogli come aveva potuto arrivare sino a tanto. Per amore dell’Altissimo, solo per amore…
In punta di piedi, scalzo, si avvicinò al letto dove ronfava il seminarista.
Ce l’aveva davanti.
Continuava a parlare nel sonno.
Era oscena quella bocca, aveva qualcosa di maligno, rossa e grassa pareva una vagina di femmina sfondata.
Se Dio gl’aveva dato la voce, quel giorno non doveva esser stato troppo in sé, pensò Fernando subito scacciando il pensiero, quasi offeso per averlo pensato perché quel porco nel letto poteva essere solo il figlio del Demonio.
Vincendo il disgusto per sé stesso soprattutto, lentamente gli calò giù i calzoni quel tanto che bastava affinché glielo potesse prendere bene in bocca.
Non sarebbe stato difficile farlo eiaculare. L’aveva letto da qualche parte che le polluzioni notturne vengono facili.
Il buio era fitto ma il pene non era difficile da trovare: era simile a una grossa salsiccia rosa.
Lo toccò con le punta delle dita: non era flaccido come credeva di trovarlo, era invece quasi in erezione. Il lavoretto che s’apprestava a fargli si sarebbe rivelato più veloce ed economico. Doveva solo vincere la ripulsa e prendere il glande in bocca fino a farlo sborrare.
Si fece il segno della croce. Ma non ebbe cuore d’invocare Dio o Gesù perché l’aiutassero, nonostante di secondo in secondo si convincesse sempre di più ch’era per servire l’Altissimo e non per vizio. Lui era il soldato di Dio che nel buio combatteva perché il Demonio fosse sconfitto. Poco importava che nessuno avrebbe saputo del suo sacrificio: i Santi sono tali perché agiscono senza mai pensare al plauso che il popolo gli potrebbe tributare se solo venisse a conoscenza dei loro immani sacrifici. Forse un giorno qualcuno avrebbe saputo e l’avrebbe detto santo. Ma non ora. Non ora. Era troppo presto. Contava solo d’agire al buio, senza il conforto di alcuno, nemmeno della speranza che un domani il suo sacrificio potesse esser svelato e così ricompensato dalla caritatevole mano della Chiesa. Doveva agire e in fretta, perché non c’era altro da fare e il grassone avrebbe potuto svegliarsi da un momento all’altro se il Diavolo l’avesse voluto. Doveva farlo e basta, senza indugi.
Vincendo la riluttanza, serrando gl’occhi fino a farseli lacrimare, finalmente il pene gli fu in bocca. Pur non avendo alcuna esperienza prese a lavorarglielo di gran lena: gli veniva istintivo, come godere d’una patata bollente in bocca, cercando di non scottarsi la lingua, arrivando però al suo cuore butirroso con la punta per scavarlo e infine inghiottirlo.
Ebbe l’impressione netta che il seminarista gl’avesse sorriso. Non poteva essere! Se l’era sicuramente immaginato. Eppure sentì uno sguardo addosso. Inghiottì ancora, a vuoto. Non gli riusciva di staccare la bocca da quel pene: con orrore e sorpresa gli ci volle un momento per capire che gli piaceva prenderlo in bocca. L’orrore durò pochi secondi, subito sostituito da quanto piacere avrebbe potuto raccogliere negli anni a venire ora che conosceva la sua natura. Pregò che quel pene da cui non riusciva a scollare la bocca gli regalasse ancora del seme. Ma niente. L’aveva esaurito.
Tornò nel suo letto, sempre inseguito dall’impressione d’esser stato osservato.
Che cosa aveva creduto di fare? Gl’aveva staccato un pompino per ricattarlo? E come? Dicendogli forse che lui, Fernando, mentre dormiva gl’aveva fatto un bel lavoretto? La verità era che lui Fernando aveva agito perché mosso dalla fregola, perché lui desiderava il pene di quel giovane nella sua bocca, perché desiderava il corpo, la carne del giovane, perché avrebbe voluto quel porcello grasso tutto per sé. Ora gl’era chiaro: se solo avesse potuto tappare tutti i carnali pertugi di quel giovane grasso seminarista con il suo uccello!
L’erezione era così intensa che gli faceva male il pisello.
Per Fernando fu una notte d’inferno.
Al mattino fu svegliato da un urlo bestiale.
Dapprima non capì. Poi tutto gli fu chiaro… la trappola era scattata e non c’era modo di salvare la pellaccia. Oramai era finito, tutto era finito per lui, meglio sarebbe stato se le fiamme dell’Inferno l’avessero consumato durante il sonno.
L’urlo echeggiò nel dormitorio.
Era il seminarista. Gridava come un tenore, tirando certe note di petto da far venire giù Babele.
Fernando crollò il capo, sconfitto, pronto a dichiararsi colpevole e a pagare per quel che aveva fatto.

Gl’anni passarono come per tutti e anche Fernando invecchiò ma non il suo vizio: non aveva mai messo radici in una curia, ma in Vaticano tutti sapevano che tra i chierichetti sceglieva sempre i più butirrosi e innocenti. Non appena qualche voce cominciava a diffondersi nel circondario, la Chiesa pensava bene di spostare Fernando in un’altra parrocchia. Non aveva fatto carriera. Troppe maldicenze, molte vere, giravano sul suo conto e prima che potesse rendersene conto era invecchiato, un peso che la Chiesa si teneva in seno per chissà quale strana naturale perversione. Fernando non voleva conoscere il motivo per cui in tanti anni non era mai stato formalmente accusato né minacciato: si limitavano a trasferirlo, e morta lì. Cogl’anni s’era convinto che un angelo, on un démone, gli tenesse bordone preoccupandosi di far sì che lui potesse continuare ad esercitare in veste di parroco e che avesse per giunta sempre a disposizione una nutrita fila di giovinetti d’avviare lungo la strada del vizio.

Ne era passato del tempo da quando era un semplice seminarista bilioso. Ricordava perfettamente quando aveva scoperto i truschini di Giovanni P., di come amava ficcarsi fra le tette delle donnine allegre. Aveva ancora il sapore del suo seme in bocca, un sapore che cogl’anni non s’era affatto stemperato e che s’era invece acuito. Giovanni P. aveva fatto un’eccellente carriera, mentre lui era rimasto ai margini ma forse divertendosi di più. Però una volta morto nessuno si sarebbe più ricordato di lui, neanche per esser stato una spina nel fianco, un ciucciacazzi ; ed invece Giovanni P. era ormai chiaro che poteva aspirare a diventare il prossimo Pontefice. Il tempo gl’aveva ammorbidito i tratti del viso un tempo volgari: il volto grassoccio ma un po’ scavato sulle gote, le rughe intorno agl’occhi, i capelli bianchi e radi sulle tempie, gli conferivano un’aura angelicata. Pareva fosse intervenuta la mano stessa del Signore a modellare quel corpo un tempo tanto sgraziato: non era più grasso come da giovane, era invece quasi longilineo. Teneva poi un passo lento ma sicuro, e tutti dicevano che c’era della santità in Giovanni P. Il suo ex compagno di studi era stato baciato in fronte dal Signore, non c’era dubbio alcuno, o dal Démonio in carne e ossa, poca differenza faceva agl’occhi di Fernando perché P. un giorno avrebbe occupato lo scranno papale mentre lui si sarebbe spento in qualche chiesetta di campagna pregando un giovinetto qualsiasi d’accendergli l’antica fiamma del vigore.

Accadde un giorno che in gran stile una delegazione di porporati venisse a trovare Fernando, oramai vecchio e sconsolato, ma mai troppo solo nell’intimità. I porporati si fecero annunciare e Fernando li ricevette subito, immaginando che avevano da dirgli che avevano scoperto il suo vizio, che sarebbe stato portato alla gogna, che era la vergogna del Vaticano, e giù di questo passo. In fondo era riuscito a farla franca per un tempo ben più che modesto: era dunque giunto il momento di pagare per i giorni felici goduti sull’innocenza altrui! Già s’immaginava la faccia del Pontefice, di quel Giovanni nel portarlo alla gogna, accusandolo di pedofilia, di essere il canchero della Chiesa, la vergogna di tutti i preti. Suo malgrado una risata isterica eruttò dalla sua vecchia gola, proprio mentre la delegazione entrava e gli si poneva di fronte.
Rimasero a colloquio con Fernando per un’ora buona, dopodiché scivolarono via dalla sagrestia in completo silenzio. In fila indiana i porporati scesero i pochi scalini della chiesa; ad attenderli c’era una macchina nera, una limousine tirata a lucido che sia Dio sia il Diavolo avrebbero potuto usare per specchiarsi.

Fernando una volta rimasto solo si avviò verso l’altare, con passo strascicato e il fiato grosso.

Chi l’avrebbe mai detto? Tutti quegl’anni a servire Dio, o il Diavolo, e nessuno che l’avesse mai accusato di niente. Eppure tutti sapevano, sin dall’inizio. Gliel’avevano detto chiaro e tondo ch’era un ciucciacazzi , che la Chiesa sapeva con esattezza quanti bigoli gl’erano finiti in bocca. Si erano limitati a cambiarlo di curia quando le voci si facevano troppo pressanti, e la Chiesa aveva cucito poi le bocche di tutti pagando in moneta forte tutte le vittime. E adesso il Pontefice gl’assicurava che alla sua morte non sarebbe stato condannato all’Oblio, perché in tutta segretezza già era stata avviata la pratica per la sua canonizzazione, di Fernando. Porca puttana! L’avrebbero fatto Santo. Non gli restava che attendere e tirare le cuoia. Sulle prime, quando i porporati gl’avevano spiattellato la cosa in faccia così, senza mezzi termini, Fernando era scoppiato a ridere più che mai convinto che si trattasse di uno scherzo da prete . Ma i porporati di fronte a lui rimasero glaciali, e dopo un minuto buono Fernando si ricompose e capì che nessuno lo stava prendendo per i fondelli: il Vaticano, o meglio ancora il caro e buon vecchio Giovanni P., il Papa stesso, voleva con tutto sé stesso che Fernando diventasse Santo, perché Giovanni P. era certo che alla sua morte sarebbe stato canonizzato e accanto sé voleva Fernando.

Gettò uno sguardo vuoto alla navata vuota. Non c’era un cane, nemmeno un mendicante.
Lasciò schioccare la lingua contro il palato, mentre con la mente tornava a quando lo prese in bocca per la prima volta a quel giovane seminarista ora diventato Papa. Il sapore del seme di Giovanni ce l’aveva ancora in bocca, ma anche le urla belluine che lui Fernando aveva creduto segnassero per sempre la sua fine. Ricordava tutto alla perfezione. Giovanni aveva urlato come un ossesso, a Fernando gli s’era fermato il cuore in petto per almeno un secondo, ne era certo. Era accorsi tutti. Giovanni non si dava pace, gridava, gridava, gridava: qualcuno gl’aveva rubato i soldi, ma cosa più grave un’immagine sacra cui lui teneva più della sua stessa vita, essendo un regalo della madre morente che la donna gl’aveva donato affinché lo proteggesse sempre dopo la sua dipartita. Chiaramente aveva mentito: nessuno aveva rubato i suoi averi, men che meno l’immagine sacra, che con tutta probabilità non era mai esistita. L’allora giovane seminarista Giovanni aveva fatto tutta quella scena per far prendere un colpo a Fernando. E c’era riuscito! Se l’era fatta letteralmente sotto, il magro materasso era tutto bagnato di calda gialla urina. Gli ci vollero giorni e settimane perché la strizza gli passasse almeno un pochetto.

Quanti anni erano trascorsi da allora, quanti, per Dio! E adesso la promessa che alla morte non sarebbe stato dimenticato. Il suo nome, il suo volto, le sue reliquie sarebbero rimaste eterne. Sarebbe diventato Santo, sì, un Santo come tanti altri, perché così aveva comandato il Papa Giovanni P.
Fernando gettò una fugace occhiata al crocifisso e gli sorrise pensando fra sé e sé: “Gesù Cristo, non sei stato capace di rimanere al passo coi tempi: oggi il Diavolo fa sia le pentole che i coperchi!” 

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