Esiste un prima e un dopo nella filmografia di Steven Spielberg. Un preciso crinale visivo che evidenzia la svolta nel suo stesso modo di dirigere e di filtrare la realtà. Professionalmente questa svolta ha coinciso con l'incontro con il polacco Janusz Kaminski, fidato direttore della fotografia del regista durante gli ultimi vent'anni e per ben quattordici lungometraggi, a partire - per l'appunto- da La lista di Schindler. È da allora che il cineasta sembra aver abdicato alle visioni rarefatte del suo cinema più ludico per focalizzarsi sulle ombre sgranate della storia e il "tremore" della realtà. Messi momentaneamente di lato i miraggi della fantasia e le lusinghe del sogno infantile, il re di Hollywood ha potuto dar voce così ad una diversa e più matura consapevolezza che si è riflessa, inevitabilmente, nelle sue visioni successive.
L'ha fatto per necessità nel lontano 1993 di Schindler's List, perché quel debito col suo popolo e col tremendo passato della Shoah andava onorato senza troppi orpelli, evitando di cadere nelle trappole di un sentimentalismo spesso rimproveratogli dai critici e mantenendo, nella narrazione degli eventi, un delicato quanto indispensabile equilibrio fra fiction e documentarismo, entrambi filtrati con sguardo compassionevole ma distaccato al tempo stesso.
Il risultato di tanta ponderazione è un capolavoro dalla straordinaria tenuta cinematografica, una pellicola miracolosamente sospesa tra informazione e narrazione, documento e affabulazione, capace di infondere in chi la osserva una sorta di pàthos "controllato" ma pervasivo ad ogni scena (si va dal terrore al senso di impotenza vissuti in prima persona fino alla commossa partecipazione al dramma e alla memoria del "giusto").
Un'opera che riesce ad avvicinare lo spettatore all'"universale" storico attraverso il "particolare"di drammi singoli e destini meno noti. E se la chiave di accesso ad uno dei più foschi capitoli della storia lo offre l'avventurosa vicenda dell'imprenditore Oskar Schindler, colui che convertì la "valuta" in lavoratori e i lavoratori in vite umane, la scelta di esibire nel film due visioni antitetiche, quella dell'industriale pietoso da un lato e quella del carnefice istituzionalizzato (Amon Goeth) dall'altro, è fieramente "spielberghiana" nella sua finalità cinematografica.
Spielberg mette in scena due personalità antagoniste ma che agiscono tuttavia sullo stesso arido terreno, quello del denaro. Ma, e qui sta il "miracolo", non vi sono forzature manichee nella pellicola e i due personaggi principali finiscono per delinearsi, nella loro reale essenza di bene e male, all'interno del sistema - anche economico - in cui sono inglobati.
Con sguardo perfino indulgente sul malvagio di turno (Goeth fu assai più spietato di quanto il film non rappresenti), Spielberg sembra voler suggerire l'idea che sia dentro i biechi corporativismi o nel dispotismo dei sistemi che la mediocrità umana assurge ad autorità, mentre sullo sfondo la "banalità" di altri (gli affaristi, i contabili) può trasformarsi, quasi casualmente, in empatia ed eroismo. In fondo sono sempre le azioni che fanno (grandi o piccoli) gli uomini.
Il fatto stesso che il "dialogo" fra bene e male nel lungometraggio si instauri (così come avvenuto nella Storia) attraverso il linguaggio della moneta sonante sembra rendere la parabola di Oskar Schindler, ebreo e industriale che di fatto morì povero, leggibile anche in chiave insolitamente "anticapitalistica" e non unicamente umanitaria.
Ma anche senza osare simili letture l'industriale Schindler, uomo "qualunque" con appetiti "qualunque", resta una figura che aderisce perfettamente alla tematica ricorrente del più classico e ludico cinema di Spielberg, quella del "fanciullo" che deve confrontarsi con la realtà adulta o dell'adulto costretto a maturare ancora.
Il cuore di un simile svelamento della realtà stavolta non è dato dall'incontro con un alieno ma coincide col rosso desaturato di un cappotto infantile che attraversa il bianco e nero dell'indifferenza e dell'anonimato. Un'immagine cinematograficamente potente (oseremmo dire "monolitica") che assurge a simbolo di insensatezza di tutti gli eccidi, non soltanto di quelli legati alla Shoah, e che diviene il propulsore emotivo per tutte le svolte, da quella del protagonista a quella dello spettatore.
Da quel momento in poi, infatti, quest'ultimo si muoverà insieme a Schindler, seguendone idealmente i passi e diventandone emotivamente un complice durante la tessitura di quell'inganno silenzioso storicamente noto come la "lista" (termine che in yiddish significa proprio "trucco").
A Spielberg il narratore non occorrono altre metafore, oltre a quel lieve e quasi impercettibile cambiamento di tonalità, per inchiodare tutti i testimoni (dentro e fuori lo schermo) alla sua visione cristallina e (im)pietosa della Storia.
È nel nome di quel colore, ma soprattutto serbando il ricordo di quel dolore, che ogni spettatore, prima di ogni cosa "essere umano", dovrebbe accostarsi al Giorno della Memoria.
Affinché quella tragedia che un capolavoro del cinema ha reso ancora più vivida nella memoria di tutti, diventi il riflettore su tutto il sangue versato nella Storia e per la Storia, ieri come oggi, e non solo dagli ebrei. Un fascio di luce che illumini assai più che un solo popolo ferito a morte durante una singola settimana di commemorazioni.
Questo è il solo cinema che può aspirare realmente a divenire "universale".