Alcuni anni fa abbiamo concluso un’edizione di Coppa del Mondo di sci in Val Gardena, che per me era stata perfetta. Non ci furono grandi problemi, il tempo aveva aiutato, i servizi avevano funzionato, il clima tra i collaboratori era stato molto sereno.
Eppure, invece di gioire, io ero terrorizzata.
Sapevo che un’edizione senza problemi, un’edizione che ci aveva fatto vivere riunioni di de-briefing noiose perché non c’era niente da correggere, sarebbe stata un’edizione dannosa. Ci si siede, pensavo, ci si rilassa e senza la giusta pressione si rischia di non riuscire a ripetere il successo. L’anno successivo, infatti, a partire dalle terribili condizioni meteorologiche che hanno pregiudicato la manifestazione, tutto è stato difficile, complicato e conflittuale. Due edizioni. Due opposti. Ed io vagavo come se un incantesimo malefico ci avesse voluto punire. In fondo me lo aspettavo, ma non ero riuscita a reagire. Perché?
Partiamo dalla teoria.
Molti libri di management in questi ultimi anni ci ha convinto che bisogna pensare positivo. Anche fuori dal management la religione del pensare positivo è diffusissima. Basta andare su pinterest e navigare in #quotes. È tutto un dirci di sorridere al mondo, di yes we can, di io sono forte, io sono il migliore. È una cosa molto americana, lo so, ma sta arrivando anche qui l’onda delle frasi ottimiste che ci fanno stare tanto bene e ci fanno credere che saremo dei vincenti.
E siccome è questo il pensiero comune, la mattina ci si alza, ci si guarda allo specchio e, anche se si hanno mille preoccupazioni, una faccia stropicciata, la nostra, ci dice: Oh yes!
Per me, pessimista per natura, questa incitazione al vedere solo il lato bello delle cose ha causato profonde frustrazioni, nonché agguati alla mia austostima. Pochi giorni fa, però, ho letto un post che mi ha riequilibrato. E’ un articolo che dice un po’ di pessimismo non nuoce. Evviva!
Come sempre, la soluzione sta nella misura.
L’ottimista, quello che si presenta sempre con il sorriso, quello del “dai, ma si, che vinciamo”, se da un lato è più portato a innovare e osare, dall’altro rischia di diventare un tossico e di non vedere più la realtà per come è. Sempre vestito bene e sorridente, dedica troppo poco tempo all’analisi seria degli scenari possibili.
Il pessimista, quello invece che dice sempre “no” perché tutto è rischioso, che ha il muso abbassato e che io mi immagino vestito di nero con la pelle grigia, quel pessimista, che magari quando passa nei corridoi ognuno si sente libero di fare scongiuri di vario tipo, può essere altrettanto tossico e paralizzare un’organizzazione.
La misura starebbe nel mezzo. Dopo tanti anni di lavoro al fronte, credo di essere averla trovata questa via mediana tra sorriso e preoccupazione. Non tanto per particolare bravura, ma per sopravvivenza.
Sono una pessimista ottimista.
Può sembrare schizofrenico, ma in me convivono effettivamente pessimismo e ottimismo. Sono sempre preoccupata che le cose non possano funzionare, ma allo stesso tempo credo anche che una soluzione si troverà.
All’inizio della mia carriera ero solo pessimista. Ricordo la mia prima conferenza stampa. Ero terrorizzata come agli esami dell’università. Temevo domande scomode (e oggi sorrido a questa paura), tremavo all’idea di balbettare o peggio di non riuscire a parlare. Ogni conferenza stampa per molti anni è stata cosi. Poi lentamente, come in una scia di colore che passa da un tinta all’altra, il pessimismo ha fatto posto all’ottimismo. Oggi non mi spaventa più parlare ai giornalisti. Oggi però ho alle spalle molte conferenze stampa, maggiori conoscenze, e so che in ogni caso qualsiasi cosa accada, una soluzione si troverà. Oggi pessimismo (il qualsiasi cosa accadrá) e l’ottimismo (il si risolverá) convivono.
Nella mia pratica professionale questo ossimoro interiore si risolve in genere senza conflitti. E nell’articolo che ho citato ho capito perché:
The key is to find the sweet spot, the more moderate ranges that combine the benefits of both approaches. In the words of Richard Pine, “The best chief executives—and that includes presidents—know that too much optimism is a dangerous thing, that wise and productive leadership means striking a balance between optimists’ blue sky view of the world and pessimists’ more clear-eyed assessment of any given situation.
Pessimismo e ottimismo obbligatori negli eventi
Nell’organizzazione di un evento le due attitudini sono condizioni necessarie.
Il pessimismo serve a pianificare l’imprevedibile, che è, come dire, una dote naturale degli eventi.L’ansia serve a immaginarsi gli scenari possibili e lavorare sodo per prevedere interventi rapidi o risolvere conflitti. Molto banalmente, anche solo nel definire i flussi del pubblico, un po’ di sano pessimismo aiuta a immaginare possibili vicoli ciechi per evitare corti circuiti.
Io mi chiedo sempre: cosa accade se …
E fintanto che non ho in mente una soluzione, non sto tranquilla. La soluzione è necessaria averla bene in testa, anche perché gli eventi vivono nell’istante e dato un problema imprevisto, va risolto subito. Non è possibile rimandarlo al giorno dopo, perché il giorno dopo non esiste.
Immaginare dunque scenari è importante, lavorare sodo per identificare le soluzioni lo è altrettanto, per avere poi in fase esecutiva la serenità di una portfolio di possibili soluzioni già visualizzate nei momenti di ansia.
L’ottimismo invece è necessario perché in ogni caso bisogna trovare una soluzione e l’ottimismo abbatte il rischio di panico e aiuta a essere lucidi. Lo chiamerei ottimismo consapevole: non si tratta cioè di incoscienza, ma di consapevolezza che problemi ce ne saranno in ogni caso, ma anche che saranno risolti.
Penso che ognuno di noi sia per natura più ottimista o più pessimista e penso che è poi l’esperienza a bilanciare bene i due atteggiamenti. Il nuovo fa paura e in questo il pessimismo aiuta ad anticipare possibili problemi. Ma il nuovo è anche vita e va accolto con ottimismo.
È un gioco di equilibri, di sensibilità che va appresa con esperienza e lavoro. Oggi ascolto le mie ansie come fossero spiritelli che mi suggeriscono di non tralasciare questo o quel dettaglio. E li ringrazio per questo, come fossero dei piccoli consulenti magici.