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Schizofrenia, felicità, qualcosa del genere

Creato il 23 maggio 2011 da Lipesquisquit
(autoplagio tattico 03)
Riflettendo sul motto di un grande teoreta moderno, sono riuscito a cambiare atteggiamento nei confonti della assoluta impossibilità di trasferire un blog dalla piattaforma Splinder alla piattaforma Blogger. Checchè ne dicano le leggi fisiche virtuali, infatti, io trasferirò il mio vecchio blog sul nuovo, e lo farò così: un pezzo alla volta, i pezzi che più mi aggradano, così avrò anche più roba da postare, tiè.
“Il problema non è il problema. Il problema è il tuo atteggiamento rispetto al problema.” – Jack Sparrow –
(lunedì, 16 novembre 2009)E’ successo un casino: hanno abbattuto il mio albero, il mio vecchio, grande, bellissimo albero di noci.Era qui sotto, dietro alla catasta della legna, sul limitare del campo che era del mio bisnonno, quello dove, da piccolo, andavo a cercare reperti archeologici, quello dove fingevo di essere un gigante cattivo che lanciava grossi massi e distruggeva tutto (erano zolle di terra, nella fattispecie), quello dove avevo costruito un nunchaku con due pezzi di legno e un filo e poi me lo ero dato sul naso.Vent’anni fa, in quest’angoletto di campagna umbra, la mia infanzia bucolica trascorreva inconsapevole di stagione in stagione. Ero il classico bambino in calzoncini corti, ginocchia sbucciate e fionda, e data la mancanza di compagni di gioco (li avevo, ma non da queste parti) usavo la fantasia e mi ritrovavo a fare le cose più insensate, la maggiore delle quali era cercare un’anima in quel grande albero di noci e comportarmi come se l’avesse. Ogni giorno gli giravo intorno, mentre facevo i miei giochi da bambino asociale, e in qualche modo mi sentivo al sicuro; nelle fantastiche minchiate che mi giravano per la testa, io in qualche modo sapevo che lui mi guardava, che si accorgeva di me, con quel suo acutissimo intelletto da vegetale anziano, si accorgeva della mia urtante presenza e probabilmente pensava “accidenti, questo cucciolo di umano è veramente un disadattato. Ma una volta non c’era la selezione naturale?”. Nonostante io avessi da fare un milione di cose assurde, inutili, pericolose e anche poco igieniche, quando passavo di lì mi ricordavo sempre di lui, e allora lo guardavo, mi assicuravo che stesse bene, gli giravo intorno, se c’erano mangiavo un paio di noci, poi correvo a prendere un secchiello e gli davo un po’ d’acqua.Dato che ero un bambino intelligente (ero psicopatico, non stupido), sapevo perfettamente che quell’acqua non gli serviva a nulla, perché il mio albero era un albero grande e aveva delle radici lunghissime, almeno quanto i rami, radici che arrivavano giù in profondità dove la terra è sempre bagnata, quindi in teoria non aveva bisogno di niente, ma non mi importava: io gli volevo bene al mio albero, andavo lì regolarmente perché volevo prendermi cura di lui, con tutto il candore e l’innocenza di questo mondo. Dio, ero proprio insopportabile (oltre che preoccupante), sembravo uscito da un cartone Disney; davanti a tutta quell’ostinata tenerezza il mio povero, paziente albero deve aver pensato “piccolo dolce infante ritardato, smettila immediatamente di innaffiare le fottute erbacce che mi crescono intorno e vai a giocare al dottore con le bambine, piuttosto.”.Ricordo che una volta, preso da un qualche delirio ecopanteistico new age, l’ho anche abbracciato, il mio albero, perché per il bambino deviato che ero quell’albero era un amico particolare, una specie di E.T., una forma di vita diversa. Non ci avrei mai parlato, con il mio albero, non ci avrei mai giocato insieme, non ci avrei mai fatto niente del genere, era ovvio, non era proprio possibile, perchè lui era un albero inerte e inespressivo e io un bambino scemo con molta fantasia, però non mi importava.Quell’albero era un amico, gli volevo bene.
Col tempo, poi, ha iniziato ad appassire; in fondo era inevitabile.Intendo il mio animo da bambino scemo: con gli anni, piano piano, è andato spegnendosi, ho smesso di fare l’idiota con il mio albero, ad un certo punto l’ho proprio dimenticato, il tempo ha cominciato a correre, finchè mi sono ritrovato quasi trentenne, una mattina mi sono alzato, sono andato al bagno immerso in mille pensieri e impegni vari, mi sono affacciato alla finestra e ho visto in mezzo al campo incolto un grosso albero di noci abbattuto e tagliato in pezzi, un po’ di terra smossa e delle radici strappate. Mi hanno spiegato che col tempo era avvizzito, ogni anno si ritrovava con meno foglie e meno noci; negli ultimi tempi alcuni rami erano caduti giù da soli, ormai era proprio da abbattere. Sono rimasto lì a guardare il vuoto, amareggiato: in fondo lo sapevo, avevo notato che si stava seccando, ma non mi ero mai soffermato a pensarci. Avevo da fare.E insomma, quella poteva anche essere una giornata triste, perché il bambino scemo che è in me, davanti a quello spettacolo di morte e inesorabilità, aveva avuto un sussulto, era rispuntato fuori dall’angoletto in cui lo avevo confinato e aveva iniziato a piangere, a battere i pugni, cercava di farmi capire che quella era una tragedia, che non dovevo ributtarmi negli affari e nella roba come se niente fosse, non questa volta, no, dovevo fare qualcosa, e io allora ho fatto qualcosa, ho preso in braccio il mio bambino scemo e gli ho ricordato i vecchi tempi, quando c’era solo lui e il mondo era un grosso parco giochi dove poter fare cose inutili e ridere dalla mattina alla sera. In particolare, gli ho raccontato di quando un giorno, mentre si rotolava nel fango lì vicino, aveva visto un piccolissimo albero di noci, che era germogliato spontaneamente da una noce caduta in terra. L’aveva visto, aveva capito cos’era, aveva sorriso al grande albero, e poi come un vero bambino scemo l’aveva estratto con molta cura, con tutta la sua zolletta di terra, e lo aveva messo al sicuro in un vecchio vaso di terracotta preso in prestito dalla nonna, perché li in mezzo al campo da coltivare poteva succedergli di tutto. Ogni giorno, poi, lo aveva innaffiato, gli aveva tolto le erbacce, lo aveva visto crescere, finchè un giorno Orion, da buon signore delle selve, lo aveva preso e lo aveva piantato da un’altra parte, in un bel posto, una delle sue montagne piene di alberi.Il mio bambino scemo allora si è ricordato tutto e ha smesso di piangere, poi mi ha chiesto se un giorno lo andremo a trovare, il nostro albero.Ma certo che ci andremo, gli ho detto io.Promettilo, ha insistito.Ma si, te lo prometto, tranquillo, gli ho detto, un po’ spazientito.E lo abbracceremo di nuovo, mi ha chiesto lui.Bè, adesso stai esagerando, gli ho risposto con il tono severo.E dai, e dai, promettimelo, promettimelo!
Va bene, si, promesso, promesso, gli ho detto. Lo abbracceremo di nuovo, il vegetale, però adesso basta, non farmi fare più figuracce, che siamo su internet, la gente ci guarda, torna a fare i tuoi giochi scemi, su, da bravo. E comportati bene, che diamine, smettila di essere così felice!

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