Una equipe di archeologi dell'università di Udine ha portato a segno una scoperta epocale e lo ha fatto lavorando a due passi dal territorio messo a ferro e fuoco dallo Stato Islamico
Non c’è solo guerra in Iraq: il Paese devastato dall'offensiva degli jihadisti dello Stato islamico conserva le vestigia della civiltà babilonese ed è fonte inesauribile di storia e cultura, settore in cui l'Italia sta dando una mano importante a Bagdad: uno scavo 'tricolore' ha riportato alla luce 500 siti archeologici nella regione del Kurdistan iracheno. Il ritrovamento "fatto a meno 20 chilometri dal fronte dell'Is - spiega il responsabile del progetto, l'archeologo Daniele Morandi Bonacossi - può aiutarci a ricomporre l'evoluzione sociale, tecnica e politica, di una gigantesca area di più di tremila chilometri quadrati. I siti coprono un lasso di tempo di 10.000 anni, dall'8.000 a.C. ai giorni nostri, ovvero dagli albori della civiltà babilonese fino alla fine dell'impero Ottomano". I risultati di due anni di lavoro, svolto dal 2012 nei territori della provincia di Dohuk, in Iraq, sono stati presentati ieri alla facoltà di archeologia dell'università di Udine, l'ateneo che ha sostenuto il progetto.
Una scoperta importante non solo per l'Iraq, ma per l'umanità intera: tra i ritrovamenti più importanti, gli scavi hanno svelato una serie di necropoli, risalenti al periodo che va dal 2.700 al 600 a.C. dalle quali i ricercatori ipotizzano di poter ricostruire i primi insediamenti nelle campagne di Ninive. Qui, nel primo millennio avanti Cristo, vennero deportate, dai sovrani assiri, intere popolazioni, quasi un milione e 300mila persone. Della deportazione, finora, non si aveva un riscontro archeologico. Questo sito potrebbe documentarla. E non è tutto: dei 500 ritrovamenti, 200 risalgono all'epoca neoassira, e si compongono di antiche città, villaggi rurali, cimiteri, monili, fornaci, canali per l'irrigazione e una rete stradale.
Basterebbe solo l'importanza archeologica della scoperta a rendere la vicenda di rilievo internazionale. Ma le condizioni in cui hanno lavorato i ricercatori ne avvalorano la sua grandezza. Lavorare a venti chilometri dalle zone su cui preme l'Is non è ordinaria amministrazione. "Noi siamo partiti - racconta Bonacossi, non lasciando trapelare
emozioni di paura al ricordo di quei momenti - prima che l'Is cominciasse a premere militarmente sui confini del Kurdistan. Una settimana dopo la nostra partenza, l'Is ha attaccato sia sul fronte di Arbil sia sul fronte di Dohuk e ha conquistato la famosa, ormai tutti la conosciamo, diga di Mossul a 20 km da Dohuk. Essere in missione con dei collaboratori e studenti e sapere che l'Is bombarda a 20 chilometri da dove sei, crea molto nervosismo. La nostra ambasciata in Iraq, tramite il consolato a Arbil, ci ha chiesto di rientrare a casa e ha interrotto la nostra campagna".
Prima di rientrare in Italia, però, il professore fa sapere di essere stato testimone degli effetti dell'avanzata dell'Is. "In pochi giorni - ammette Bonacossi, consapevole del disastro a cui ha assistito - la provincia di Dohuk si è riempita di profughi. Per capire le proporzioni dell'evento basta pensare che tutta la provincia del Kurdistan ha un milione e duecentomila abitanti, ora è popolata da oltre due milioni di persone. Ci sono più di 800mila profughi nella regione che le autorità curde hanno messo in salvo all'interno dei propri confini".
Il dramma della guerra non abbatte la voglia delle autorità locali di salvaguardare il proprio patrimonio, il proprio passato. A fronte di sempre minori finanziamenti che la ricerca riceve dallo Stato, per quanto a loro possibile, le autorità irachene aiutano la ricerca. "Sia le autorità centrali di Bagdad - rivela con gratitudine Bonacossi - sia quelle della regione autonoma del Kurdistan sono perfettamente consapevoli dell'importanza della scoperta. Tanto è vero che il governatore di Dohuk ci ha sostenuti anche materialmente: fornendo ad esempio case in cui risiedere, per trenta persone, e anche due vetture".
Progetti di ricerca come questo hanno dei costi elevati che le università italiane senza l'aiuto dello Stato non possono affrontare. "Un campo come il nostro - continua Bonacossi, spiegando la situazione di penuria economica che vive la ricerca in Italia - costa nel complesso 120mila euro l'anno, e questo soltanto per la campagna sul campo, perché poi bisogna studiare i dati raccolti, altrimenti sarebbe come andare a fare la spesa spendere i soldi e poi non mangiare il cibo che si è comprato. Sono campagne molto lunghe, ogni uscita è di due mesi e mezzo/tre. Portare un'equipe intera (30 persone) in Kurdistan è molto costoso e quindi non ha senso rimanere per periodi brevi".
Qualcosa, però, lo Stato riesce ancora a farlo. Ma lo fa attraverso vie secondarie, destinando alla ricerca fondi diversi, che non provengono dal ministero dell'Istruzione e della Ricerca. "È inutile che descriva lo stato in cui gli archeologi italiani lavorano da quando il governo ha rinunciato a finanziare la ricerca di base - dice amareggiato il professore - sopprimendo i cosiddetti Prin (Progetti di ricerca d'interesse nazionale), dallo scorso anno non ci sono più finanziamenti per tutta la ricerca italiana. Per fortuna noi siamo finanziati dal Ministero degli Esteri - svela senza imbarazzo - attraverso la cooperazione italiana allo sviluppo. Noi ci troviamo nella situazione paradossale in cui grazie al ministero degli Esteri siamo in grado di finanziare il progetto, ma non riceviamo soldi da viale Trastevere".
Neanche la paura della guerra, però, può fermare la ricerca, figuriamoci la difficoltà di trovare fondi. L'equipe di archeologi capitanata dal professor Bonacossi, infatti, dopo aver concluso la prima fare di osservazione si appresta a ripartire per proseguire con l'analisi dei dati raccolti. "Se la situazione rimane stabile com'è adesso - conclude - partiremo nel gennaio del 2015 per una campagna di studio dei materiali tra gennaio e marzo".
Fonte: www.repubblica.it