Quel che mi viene da dentro
è denso.
È come fango
sprigiona odori dei sottoboschi
da cui provengo.
Passo la vita a costruire
i gradini, di una scalinata
che poi ripercorro inversamente,
assaporando il momento in cui
il piede tende all’inferior gradino,
lo spostamento del peso
quell’attimo di
sospensione.
Mi sento lume.
Illumino, anche se poco
il buio di un’altro mio omonimo.
Avide persone si appropinquano
alla mia flebile luce
forse perché,
di luce loro non hanno.
Godono del chiarore,
lo ricevono e lo vezzeggiano
carezzano l’indole mia con lascive lusinghe e
se ne vanno.
Via verso altri lumi
che non mi somiglino.
Non mi è possibile
purtroppo,
concepire e creare
senza giudizio, sento d’esser vivo
perché non fermo mai il mio pensiero.
Solo così posso guardar con gioia
a tutto quel che mi circonda,
perché tutto mi è nuovo e
se non lo è
v’è altro da scoprire.
Mi perdo nel mondo,
in cui mi confondo.
Continuo a mordere
con forza,
con tenacia
il labbro mio
fin quasi a sanguinare.
Non per strano masochismo
od onanismo,
ma per ricordare che il mondo
è al di là degl’occhi,
di quà
sono solo io,
minimamente,
immensamente
io.
Quindi
straniera, che
forse stasera,
ti fermerai qui,
non guardare la luce
ma guarda quel labbro.