"Scorrete lacrime, disse il poliziotto" II
In maniera simile ma per certi aspetti ancor più contundente, il detective Lockee interpretato da Jake Gyllenhaal in "Prisoners" di Villeneuve, uomo taciturno ma intuitivo, di fondo conciliante, lo stesso determinato nel disporre in ordine intuizioni e dettagli, vede di continuo messo alla berlina il suo "ruolo" (e quindi la sua "identità") non solo dalla furia - che arriva ad un niente dall'aggressione fisica - di uno dei genitori (il Keller Dover tratteggiato da un forsennato Hugh Jackman) di una bambina rapita in una piccola comunità della Pennsylvania - desolata e quasi sempre battuta dalla pioggia - che lo classifica sic et simpliciter un inetto, insultandolo in pubblico e davanti ai suoi superiori: ma in un certo qual modo proprio dall'apparato stesso, dai colleghi, cioè, i quali, fra un ammonimento ed un invito a prendersela comoda, quasi guardano con compatimento se non con derisione il suo zelo, il suo non arrendersi ad evidenze tutte di segno contrario. Stessa insidia che gli proviene, a ben guardare, anche dalla popolazione locale asserragliata nel silenzio e nel grigiore delle proprie consuetudini senza vie d'uscita - amalgama fisica e grumo simbolico, questa, con acutezza ritratta dal regista -; individui che assistono (e collaborano assai poco) in un misto di omertà e indifferenza. Ciò che tuttavia trattiene ancora Lockee/Gyllenhaal al di qua dell'abisso in cui e' precipitato il Brown/Harrelson di Moverman, e' l'adesione tutta personale alla "detection" che, per quanto misconosciuta, a volte dagli snodi paradossali e non del tutto
risolutiva perché sospesa su un interrogativo, certifica l'adesione al "ruolo", riscattandone almeno in parte - e seppur nel completo disinteresse di un "mondo" che semplicemente non vuole saperne - la legittimità..
Lo scarto più sensibile allo schema sin qui proposto e forse stremo e approdo della "condizione" dello sbirro metropolitano contemporaneo, si osserva invero nella prassi quotidiana degli agenti Mike Zavala/Michael Pena e Brian Taylor (nei cui panni troviamo di nuovo Gyllenhaal), protagonisti delle vicende al
centro di "End of watch" di Ayer: incoerenze viventi e cortocircuito non arginabile di quel "to protect and to serve" che da ardita campitura impressa
sulle fiancate di ogni "patrol car" scivola qui a curioso motto che flirta di continuo con la sospensione dell'incredulità se non apertamente col grottesco
triste. Brian e Mike, infatti - "End of watch" restando comunque la prova più modesta fra quelle considerate, sia dal punto di vista stilistico che
drammaturgico, incastrata com'è tra ripetitività narrativa per accumulo di situazioni simili e un qual compiacimento equamente irrorato sui campi sempre
assetati del turpiloquio e della crudeltà, alla quale, poi, alla lunga, non giova nemmeno l'insistito punto di vista eccentrico rappresentato dalla
prospettiva dell'"occhio amatoriale" della videocamera utilizzata da Brian durante i turni per rimpolpare il materiale didattico selezionato per un corso
alla facoltà di Legge - girano per le strade di Newton, uno dei sobborghi più pericolosi di Los Angeles, imbattendosi con la più varia umanità, divisa al suo
interno da barriere di razza, religione, interessi ma ben solidale nel non riconoscer loro più alcun "ruolo" (meno che meno un'"identità") che non sia
quello di momentaneo o più a portata di mano "raddrizzatore di (presunti) torti": funzione che, se potessero, assolverebbero da soli o delegherebbero
senza alcuna remora al criminale/capataz di turno. Esemplificativo di tale assunto e in ironico contrasto con le parole di Brian che aprono il film, "Sono
il vostro destino col distintivo e la pistola. Sono la conseguenza delle vostre azioni... Noi siamo la sottile linea blu. Proteggiamo le prede dai predatori. I
buoni dai cattivi. Noi siamo... la Polizia" - ad essere cinici più un calembour che una seria dichiarazione d'intenti - e' la sequenza che vede Mike spogliarsi
degli emblemi della sua autorità (distintivo e pistola, appunto) e affrontare in uno scontro a mani nude un sospettato di aggressione. Il tale, con la più
ostentata naturalezza, oltre a non temerlo in quanto "poliziotto" e infischiandosene delle accuse mossegli, non lo considera titolare di alcuna
prerogativa che non sia quella che eventualmente gli deriverebbe dal buon esito della lotta. Con Brian che assiste un po' interdetto, un po' divertito, i due
si scazzottano senza risparmiarsi e solo quando Mike ha la meglio sul rivale questi e' "disposto" a farsi arrestare, oltreché a riconoscergli una dignità e
di conseguenza un minimo di rispetto (cosa che, ad ogni modo, non cancella mai del tutto la sensazione di precarietà dominante per cui i due agenti non paiono
difendere o rappresentare alcunché - se non in una dimensione di vaga idealità - ma agiscono con finalità simili ad una delle tante "gang" che si combattono
per il controllo del territorio, con le ovvie sanguinose ripercussioni che questo implica). Del resto Ayer, autore dello script come pure regista del
film, aveva già provato a riflettere sulla china discesa dalla figura degli "uomini in blu" nell'immaginario del cittadino medio, in "Training day" (2001)
di A.Fuqua, del quale aveva curato la sceneggiatura.
Anche allora Jack Hoyt, la recluta testarda e dall'animo nobile a cui prestava il volto Ethan Hawke -
venendo trattato sistematicamente da "pivello" non solo e non tanto dal detective scaltro e marpione del di li' a poco premio Oscar Denzel Washington
che "almeno" sfrutta, anche se solo a suo favore, l'alibi di doverlo istruire ad un "gioco" di cause ed effetti con ogni probabilità letale ("Il mio negro !"
e' l'appellativo più di frequente usato da Harris/Washington per additare Hoyt/Hawke, in un andirivieni di sarcasmo e disprezzo) ma dall'intera compagine
umana, criminale e non, con cui viene a contatto, la quale o lo denigra o lo valuta alla stregua ne' più ne' meno di un impiccio - si ritrovava spogliato di
ogni peculiarità, di ogni canone d'individuazione, sorta di agnello sacrificale predestinato al cospetto di lupi celati dietro le più diverse maschere sociali,
ben al di la' di qualunque analisi possibile inerente il suo "ruolo" istituzionale e d'appresso la sua "identità", a cui il giovane aspirante
detective tentava alla disperata di restare ciononostante aggrappato, più per un principio d'integrità individuale, un non-voler-dargliela-vinta, quasi, che
per un "senso del dovere" che via via era andato svilendosi sotto i suoi occhi.
L'itinerario di "disgregazione" che abbiamo provato a tracciare sbirciando nei film di Moverman, di Villeneuve e di Ayer risale - cinematograficamente parlando - assai indietro nel tempo. Senza la pretesa di catalogare tutti i rami, pressoché infiniti, di questo possente albero (per non parlare delle "foglie" e dei possibili "innesti"), 'idea e' adesso quella di isolare un pugno di titoli a mo' di esempio - nonché di stimolo e orientamento della
curiosità - cercando sempre di non dimenticare il fondamentale nesso che esiste fra la rappresentazione della realtà fornita dalle singole opere - ogni aspetto
della quale appare in costante accelerazione - e i contraccolpi che la stessa realtà riserva in ragione dei suoi innumerevoli e imprevedibili sbalzi, in uno
stimolante (e spesso stordente) inseguirsi di descrizioni e preveggenze le cui ricadute partecipano all'ulteriore stratificazione - nello specifico - della
figura del poliziotto, in specie del suo modo di reagire alle sollecitazioni provenienti dalle nuove "giungle", più o meno d'asfalto, da lui frequentate.
Troviamo così - e giusto per segnare un punto - i contorcimenti interiori dell'ispettore McLeod/K.Douglas in "Pietà per i giusti" (1951) di W.Wyler;
l'inasprirsi di una visione disincantata e cupa - sovente accompagnata dal desiderio di vendetta come dalla pratica di una violenza quasi ferina - in
opere del calibro di "Neve rossa" (1952) di N.Ray; "Il grande caldo" (1953) di F.Lang; "Senza scampo" (1954) di R.Rowland; "Un bacio e una pistola" (1955) di
R.Aldrich: veri e propri referti stilati rovistando nei meandri psicologici e morali degli "uomini col distintivo", il disorientamento dei quali si acuirà
per stabilizzarsi in un malessere sordo ma assillante nel cuore degli "anni in movimento", i Sessanta, con le osservazioni prodotte, per dire, da uno
scrittore come Ross Macdonald (un occhio ad Hammett e a Chandler, l'altro ai fermenti anche discordi e disordinati di un'epoca agli albori ma già come
presaga di non avere molte stagioni davanti a se') e animate sullo schermo dall'atteggiamento "cool" e dall'agire minato dal disinganno del detective
Harper/P.Newman in "Detective's story" (1966) di J.Smight. Il decennio successivo, se possibile, radicalizzerà ancor più il disagio stendendo su di
esso il sudario della spersonalizzazione e dell'anomia che assumerà, sul versante criminale e in un'ottica di "non ritorno", le fattezze di "variabile
dipendente del processo capitalista", ossia i connotati di un'attività regolata in via esclusiva dalle logiche di mercato, senza coinvolgimento emotivo, senza
tregua, senza pietà; mentre dalla parte dei "buoni" deformerà ancor più le pieghe vuoi della brutalità ispessita dal ribrezzo del "Dirty Harry"/(Clint
Eastwood) - 1971 - di D.Siegel; vuoi del pragmatismo nevrotico del "Popeye" Doyle/G.Hackman de "Il braccio violento della legge"(1971) di W.Friedkin. Vuoi
ancora delle solitudini irredimibili e allucinatorie del poco ricordato "I nuovi centurioni" (1972) di R.Fleischer (esordio letterario di un uomo come
Joseph Wambaugh, classe 1937, ex Marine, quasi tre lustri passati nel LAPD, scrittore, saggista, sceneggiatore, al pari se non più di Ellroy, osservatore
critico ma dal-di-dentro della condizione dello sbirro, poco interessato sia alla lettura ideologica che alla deformazione meramente dissacratoria - celebri
a questo proposito i suoi attriti con R.Aldrich e la produzione in relazione ad un altro titolo centrale ai fini del nostro discorso come "I ragazzi del coro"
(1977) - ): alterazioni via via confermate da pellicole sempre più realisticamente e iperrealisticamente "crudeli" nel circostanziare il
"cedimento" del poliziotto, fino alla vera e propria deflagrazione in uno dei vicoli ciechi più noti, ossia il "bad Lieutenant" (1992) di A.Ferrara, odissea
negativa, tra dissipazione, sfinimento e sofferti rimandi cristologici (bissata quasi due decenni più tardi da Herzog in una prospettiva parimenti "folle",
visionaria, quanto nell'essenza laica): autopsia di un'inerzia stupefacente e stupefatta, grido angosciato di una condizione in primis umana d'inespiabile
perdizione, in rapporto alla quale la funzione, il "ruolo" di "pubblico ufficiale" svela i lineamenti di una colpa supplementare, forse addirittura
quella di un peccato a cui non si e' nemmeno più in grado di dare un nome. Un germe, quello ferrariano, i cui prodromi virali erano già in circolo in altri
"corpi" cinematografici, pressoché coevi, tipo "Il principe della città" (1981) di S.Lumet; i "due" Petersen di "Vivere e morire a Los Angeles" (1985) di W.
Friedkin e "Manhunter" (1986) di M.Mann. E "Indagine ad alto rischio" (1988) di J.B.Harris; "Affari sporchi" (1990) di M.Figgis; "Terzo grado" (1990) ancora di
Lumet e tanti altri...
Ciò che conta, comunque e in conclusione, e' notare come il deteriorarsi dell'"uomo d'ordine", del suo "ruolo" di cinghia di trasmissione tra una
manciata di ideali astratti - la Legge, l'Ordine, la Giustizia - e lo sforzo di renderla immanente per la salvaguardia della coesione della comunità,
scaturisca in fondo (e i film di Villeneuve, di Ayer e di Moverman lo testimoniano) dalla relazione direttamente proporzionale tra la mutazione delle
dinamiche sociali proprie della "modernità", l'apparente "ineluttabilità" dell'andamento frenetico di queste dinamiche e la pasta contraddittoria - dai
contorni per molti aspetti tanto ancora inediti quanto poco rassicuranti - di cui e' fatta l'esistenza del singolo all'interno di un millennio che da poco ha
preso ad accompagnarci: amarognola mistura di chimere, disinganni, ubbie, rancori, automatismi, attrazione e ripulsa per la solitudine, indefinito ma
persistente senso d'irrealtà che si distilla in interrogativi senza risposta o dalle risposte inadeguate o scoraggianti, nell'incrollabile sebbene tacita
illusione di una risolutiva metanoia. E se intanto i cieli cambiano, il blu che sovrasta tutti non e' meno sbiadito di quello delle divise degli sbirri, di
celluloide e non, made in USA o figli di altre terre. Un'attesa, pero', sembra accomunarli: l'ostinazione senza trasporto per un nulla migliore.
(Nota: il titolo e' rubato ad un romanzo di Dick la cui suggestione non distanzia di molto quella di un quasi omonimo brano degli Elettojoyce).
- parte seconda -
- Fine -
TFK
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