Presentio qui un estratto dal romanzo di Mauro Libertella, Scritto sulla tua terra, traduzione di Vincenzo Barca, Caravan Edizioni, 2015, pp. 112, € 9,50.
Mio padre è morto quattro anni fa, un mezzogiorno di ottobre, nella casa in cui adesso vivo io. Mi ricordo di quel momento con particola- re nitidezza, perché qualche secondo prima che smettesse di respirare capii che il suo conto alla rovescia era arrivato, letteralmente, al respiro finale. Fu un istante insieme dolce e drammatico: io inginocchiato sul pavimento, lui disteso sul suo letto, incosciente da ore. Con mio zio e mia sorella gli davamo da prendere un liquido medicinale che serviva a integrare le proteine del cibo che da giorni aveva smesso di mangiare. La scena era terribile, perché il decadi- mento fisico si imponeva in tutta la sua evidenza; era molto magro, prostrato e con lo sguardo perso nel vuoto. E tuttavia ricordo un’atmosfera lieve e tenera, senza stonature. Beveva a piccoli sorsi da un bicchiere di vetro che gli tenevamo inclinato all’altezza della bocca: era un automa in quel suo ultimo gesto di sopravvivenza. Prendine ancora un po’, prendine ancora un po’, gli chiedevamo ostinati, ripetendolo come una supplica. L’ultimo sorso gli spezzò il respiro, che già era un filo tenue e fragile. Così lo vidi morire, con la testa appoggiata al cuscino e gli occhi chiusi. Immagino che sia stato un bel modo per andarsene, in mezzo ai suoi libri e nella sua casa, dove negli ultimi anni aveva cominciato a morire poco a poco.
Ricordo di essere arrivato all’ospedale una mattina d’inverno e di essermi perso per i corridoi fino a ritrovarmi davanti al Pronto Soccorso. Gli avevano assegnato il letto in fondo, contro la finestra, e lui aspettava seduto, vestito, guardando la strada, con la borsa ai piedi. Quella mattina si era svegliato con dei dolori, aveva preparato la borsa ed era andato in autobus all’ospedale. Mi aveva chiamato da un telefono pubblico quando gli avevano fatto capire, con parole un po’ evasive ma risolute, che doveva restare lì qualche giorno per poter studiare bene la situazione. Quando lo vidi da lontano, in fondo a quella camerata piena di letti, mi sembrò un emigrato che arrivava con la sua valigia dalla vecchia Europa. C’era qualcosa di anacronistico nei suoi abiti, e la sua faccia era invecchiata con una rapidità impressionante. Era un uomo forte, autosufficiente, ma era anche un uomo solo su un letto, che guardava fuori da una finestra.
Ci abbracciammo, chiacchierammo un po’, e, come sempre, prevalse un clima segnato dall’ironia e dai giochi di parole. Non sapeva che cosa aveva. Non gli avevano detto niente. Con la scusa di una telefonata, lo lasciai un momento sdraiato e andai a cercare un medico. Dal modo in cui uno di loro mi salutò quando gli dissi che ero il figlio del paziente del letto in fondo ebbi il sospetto che le cose andassero male. Era giovane, alto, con una barba vagamente incolta e i lineamenti induriti dalla notte in bianco in ospedale, e si vedeva che era nervoso. Mi fece un discorso molto veloce, una o due volte mi toccò la spalla e non andò troppo per il sottile. Mi disse che non sapevano “a scienza certa” quale fosse il quadro, che sarebbe stato troppo affrettato da parte sua sbandierare una diagnosi che non poteva poggiare su garanzie o certezze, ma che mio padre aveva del liquido nei polmoni, e che questo quasi sempre è un sintomo di cancro. Sopraggiunse un silenzio orribile, densissimo, e quando ero sul punto di svenire, e il giovane dottore avrebbe dovuto farmi forza, mi disse come stavano le cose: “Non abbiamo ancora fatto le analisi, ma ti posso già dire che è in stato avanzato”.
Come tornare al letto di mio padre dopo quella notizia e abbracciare nuovamente la logica del buonumore? Andai in bagno, mi sciolsi in un pianto fatto di raffiche brevi, mi lavai la faccia e attraversai di nuovo il lungo corridoio fino al punto in cui lui mi aspettava. Mi chiese che cos’avevo fatto e gli diedi una risposta impacciata, probabilmente inverosimile. Quando vidi che si era stancato gli dissi di dormire un poco, che lì lo avrebbero curato, e ne approfittai per andarmene. Chissà, forse aveva intuito che sapevo cos’aveva e preferì non rispondermi male per delicatezza. Non lo so. So di certo che mi ritrovai per strada frastornato, presi un autobus e mi sedetti sul sedile in fondo. Me lo immaginai mentre dormiva in uno di quei letti sperduti dell’ospedale e in quel momento mi resi conto che mio padre sarebbe morto.
Avrò avuto dodici, tredici anni quando cominciai a intuire la propensione all’alcol di mio padre. Lo vedevo sempre con un bicchiere in mano e una bottiglia vicino, ma tra l’innocenza propria dell’età e la sua tendenza a nascondere il vizio, non diedi troppo peso alla ripetitività della cosa. Mi capitò a volte di prendere un sorso della sua coca cola e di essere sorpreso, assaggiandola, dal guizzo inatteso di un whisky.
Quando abitavamo tutti insieme, i miei genitori, mia sorella e io, lui teneva una damigiana enorme in un mobile della cucina, e qualunque testimone attento avrebbe potuto notare come tutti quei litri di vino rosso diminuissero alla velocità con cui si scatena uno tsunami. Forse da bambino pensavo che mio padre avesse tanta sete. Da grande capii che era un alcolista. Con il passare degli anni la dipendenza si fece più grave e, verso il 1996, decise di andare agli Alcolisti Anonimi. Tutte le sere, dopo il lavoro e prima di venire a casa per cena, guidava fino alla sede di un ospedale pubblico, nel Barrio Norte, dove si teneva il gruppo di autoaiuto. A volte quando tornava ci raccontava qualche aneddoto, ma non si dilungava mai troppo. In quei mesi cenava con succo d’arancia; ne beveva bicchieri su bicchieri come se all’improvviso fosse stato colto da una sete invincibile. L’avventura con gli Alcolisti Anonimi durò poco più di un anno, ma papà aveva ricadute sempre più frequenti e arrivò a nascondere bottiglie di whisky e di cognac nei cassetti della sua scrivania o in mezzo alla roba nell’armadio. Alla fine, un giorno disse basta al gruppo di autoaiuto. Dopo pochi mesi i miei si separarono.
A questo punto comincia quello che chiamo il crollo. Si trasferì in un monolocale a tre isolati dal parco Las Heras. Era un appartamento piccolo e deprimente, che piano piano si riempì di bottiglie. Usciva poco, e io e mia sorella andavamo a trovarlo due volte alla settimana, un’abitudine che durò per anni. Non me lo disse mai, ma era ovvio che aveva già deciso di cominciare ad affrontare i suoi ultimi anni rinchiuso, quasi senza soldi, fumando e bevendo quantità incredibili di alcol, e portando a termine i suoi scritti. Il suo corpo cominciò a debilitarsi rapidamente, e il viso invecchiò per la cattiva alimentazione e la vita sedentaria. Soffriva di diabete da oltre vent’anni e sapeva che non avrebbe retto a lungo i traumi di quel tipo di vita. Per questo si potrebbe dire che si lasciò morire a poco a poco, consapevolmente, come una scelta. Qualcuno mi ha detto una volta: «Tuo padre si è suicidato a rate». La frase non mi piace.
Nonostante si impegnasse a salvaguardare le forme (non corrispondeva all’immagine canonica dell’‘ubriacone’), la trasformazione divenne man mano molto nitida. Come se si fosse rotta una diga e l’acqua avesse cominciato a correre con una forza tremenda e incontrollabile. La mancanza di denaro, che era diretta conseguenza dello stesso sintomo, rendeva la situazione particolarmente angosciosa. Spesso mi chiamava per farsi prestare dieci o venti pesos per comprarsi qualche tramezzino. Un giorno mi accorsi che con i soldi che gli davo si comprava bottiglie di whisky e pacchetti di sigarette. Con il passare dei mesi cominciò a perdere l’appetito. Quando ci vedevamo per cenare insieme, mangiava appena due o tre bocconi, con laboriosa lentezza; il resto era solo idratazione. Siccome conservava il buonumore di sempre, all’inizio il quadro non era così impressionante. Con gli anni mi resi conto che il buonumore e il dispiego di retorica montavano man mano che le bottiglie di vino o di whisky si vuotavano. Di giorno non lo vedevo mai, e quindi si potrebbe dire che, negli ultimi lunghi anni, non vidi mai mio padre sobrio. A volte, se lo incontravo per caso di pomeriggio in qualche bar, potevo vedere che le sue mani tremavano.
Dopo due anni passati in quel monolocale, si presentò l’opportunità di cambiare aria. Mio padre e suo fratello Juancho erano proprietari di un appartamento di due vani nel quartiere di Palermo, e quando il contratto degli affittuari terminò insistemmo perché si trasferisse lì. Dopo molti tentennamenti, alla fine cedette. Il cambiamento era di per sé splendido e la nuova sistemazione prometteva un futuro di primavere e resurrezioni, ma ben presto risultò chiaro che la sua era una decisione imperativa, senza ritorno, e che non era condizionata da un semplice cambiamento abitativo. Dei due ambienti, conquistò solamente il soggiorno, dove collocò un grande tavolo di legno con la macchina da scrivere, una libreria appoggiata alla parete e un letto all’altra estremità.
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[Un giovane uomo al capezzale del padre morente. Un padre che è stato uno scrittore di culto dell’avanguardia argentina, Héctor Libertella. Mauro, il figlio, lo assiste in ospedale, nei suoi andirivieni tra vita e morte, e poi a casa, dove alla fine quest’uomo, consumato nel corpo ma sempre sul ciglio dell’ironia, esalerà l’ultimo respiro. Nello stesso appartamento in cui il padre muore, il figlio, quattro anni dopo, scriverà il suo primo libro, tirando le fila di un rapporto complicato con un padre straordinario. Una scrittura trasparente quella del giovane Libertella, un’emozione misurata con cui ricostruisce i percorsi geografici e letterari del genitore, in una Buenos Aires racchiusa in poche strade del centro, per poter finalmente seppellirlo in pace. Mauro Libertella è nato nel 1983 in Messico, dove i suoi genitori si erano esiliati durante la dittatura. Vive a Buenos Aires. “Mi libro enterrado” è il suo primo romanzo.] Da CarmillaOnLine