La poesia, nel corso dei secoli, ci ha abituati ad una mole impressionante di “canoni”, adottati di volta in volta per assecondare il “gusto” di un particolare momento storico o culturale. Un canone fondamentale è la rima, cioè la corrispondenza di suoni-sillabe alla fine del verso, a partire dall'ultimo accento. La varietà di rima (baciata, alternata, a terzina incatenata, etc...) rimanda a strutture poetiche a schema fisso (come il sonetto, il madrigale,) o a strofe variabili, secondo l'estro o la sensibilità dell'autore. L'assonanza finaledei versi crea, grazie alla cadenza fonica, una corrispondenza suggestiva, quasi irrazionale. La rima facilita la memoria e la recitazione ed unisce universalmente tutti i generi: dalla filastrocca popolare alla terzina dantesca. Altro canone fondamentale è l'accento, cioè la cadenza, quella sorta di metronomo interno che scandisce il ritmo dei versi. L'accento è correlato alla sillabazione metrica che assume vesti differenti: dai senari, agli endecasillabi, ai novenari, sino ai dodecasillabi (o doppi senari, come qualcuno dice) di Manzoni: “dagli àtrii muscòsi, dai fòri cadènti / dai bòschi, dall'àrse fucìne stridènti...”. L'accento, che può essere fisso o mobile, diventa in qualche modo padrone del verso e, come la rima, rischia di annullare i contenuti della poesia privilegiando la forma in sé. In buona sostanza, il poeta, che deve destreggiarsi tra accenti e rime, spesso deve “imprigionare” la propria ispirazione in forme lessicali tronche, o volte mutilate o forzate, arcaiche, dall'aria variamente aulica o recuperare termini vetusti o desueti per centrare l'obiettivo formale. Da qui l'esigenza, avvertita sin dall'Ottocento, di “liberare” il verso da queste costrizioni per dare senso pieno alla ispirazione poetica viva.Ed eccoci al verso libero, tanto vituperato ed osannato. Frutto di improvvisazione o, come diceva il poeta T.S. Eliot, di abilità che nasce da “una tecnica così perfetta che la forma diventa istinto e può adattarsi a ogni fine particolare”. Attenzione: è sbagliato privilegiare in sé la poesia metrica rispetto a quella a “verso libero” o viceversa. Non c'è e non ci deve essere un preconcetto di fondo, o, peggio, un pregiudizio ingiustificato. Il lettore deve essere in grado di apprezzare liberamente l'una o l'altra forma, gustare un novenario in rima alternata, piuttosto che un verso libero a sintassi mista (dove per “sintassi mista” si intende un'alternanza di “microunità sintattiche” a versi metrici regolari). Nella forma, quello che dovrebbe guidare la poesia è l'estro dell'autore: non ci si mette l'abito da sera per andare a giocare a tennis. Così, ad esempio, parlare di metrica nell'haiku non ha senso. L'haiku è fotografare “l'irripetibile istante”, due o tre versi liberi che descrivono in modo concettuale quel che accade attorno: «Oh, guarda!»/ e null'altro da proferire/dinanzi ai ciliegi in fiore/ del monte Yoshino (Y. Teishitsu).La poesia moderna esalta ed esaspera i contenuti-sentimenti, sino a capovolgere e stravolgere l'uomo in sé ed il suo interiore, proiettando la sua sofferenza verso un ambiente esterno indifferente, se non ostile. Un male di vivere che aspira a valore universale. Dice Baudelaire a proposito dei suoi “Fiori del male”: “in questo libro atroce ho messo tutto il mio cuore, tutta la mia tenerezza, tutta la mia religione (travestita), tutto il mio odio”. Questa espressione è diventata una sorta di manifesto per la poesia moderna che pure ha trovato forme espressive diseguali: dall'ermetismo di Ungaretti (M’illumino/d’immenso) al futurismo di Marinetti, sino ad arrivare alle “parole-verso” che esprimono profondità di sentimento, al di là di ogni fonosimbolismo. Viene concettualizzato un afflato estremo tra il poeta e la realtà, che spesso smarrisce il lettore nei labirinti lessicali in cui lo abbandona l'estremismo fonetico. Tale è per esempio la poesia onomatopeica, in cui il “rumore” diventa “suono” e si sostituisce alla parola. La metrica aulica, strutturata nelle forme regolari più o meno conosciute, dagli esametri alle elegie, agli epigrammi, costretta in accenti e rime, viene spezzata e destrutturata in versi distrofici in cui il lirismo si rivela solo in una cadenza/alternanza di pause e fonemi, a volte ripetitivi, che accentuano o diminuiscono – di volta in volta – l'intensità della lirica. La parola in sé diventa un epicentro delicato e “pericoloso”, da variare secondo registri e temi personali, in grado di racchiudere forme espressive inusuali, a volte al limite del puro sperimentalismo letterario e fonemico (poesie-protesta, poesia-cronachistica, poesia-sinonimica, acrostica, etc...). In buona sostanza, nei medesimi versi, il poeta può far fiorire un ossimoro filosofico, piuttosto che giocare con assonanze senza-senso, pregare, piuttosto che inneggiare alla squadra di calcio. Il tutto con la massima libertà espressiva e letterale, senza più piegarsi a canoni formali. Questa destrutturazione, spinta all'eccesso, può paradossalmente sfociare in una “incomunicabilità” tra poeta e lettore, in cui non viene rispettata neanche la semiologia lessicale: il codice linguistico del poeta è frutto di una sua personale elaborazione. In questo caso il lettore, a meno di repentini abbandoni, deve “sforzarsi” di recuperare le “chiavi” interpretative del poeta e condividere con lui quel patrimonio concettuale trasfuso nella poesia. Per carità, vale il detto de gustibus... , ma non sempre è facile distinguere e misurare il contenuto artistico di una poesia “moderna”. Né possiamo accettare tutto ciò che viene presentato in versi (più o meno apparenti) come poesia. La poesia è musica, emozione, ritmo, espressione, sentimento, passione, intensità.Altrimenti, si rischia, come dicono Brugnolo e Mozzi, di definire la poesia semplicemente come “un testo che va a capo prima che sia finita la riga”.
Alla prossima, Michele Barbera