Qualcuno leggendo il titolo di questo post potrebbe sghignazzare: “Scrivere 47 volte il finale è da somari! Chi può essere un tale poveraccio?”
La risposta è: Ernest Hemingway, e se ne parla in un articolo pubblicato sul sito inglese del quotidiano “The Telegraph”.
Non amo molto questo autore, eppure di lui ho un cofanetto Mondadori che dovrebbe risalire agli anni 70, quindi immagino sia un’edizione persino ambita. Magari un giorno proverò ancora (sarebbe la terza volta se non ricordo male), ad avvicinarmi a questo scrittore, con il quale non sono mai riuscito a entrare in sintonia. Sarà un mio limite.
Non è di questo che voglio parlare. Cosa diavolo spinge un autore a scrivere 47 volte il finale? La risposta non è proprio lì dove uno se l’aspetta. Immagino che sia necessario cercarla prima, in uno strano territorio che nessuna carta geografica è in grado di segnalare. Qualcosa che ha a che fare con l’arte, il desiderio di scrivere una storia di valore ed efficace.
Certo il finale è importante, quanto l’incipit; ma anche quello che c’è tra questi due punti deve essere all’altezza. Però in realtà l’incipit può anche non essere memorabile, perché questo incarico viene affidato al resto della storia.
Per questo ci sono inizi al fulmicotone, e quelli “diesel”.
Probabilmente, le ultime pagine sono quelle che regalano una magnifica ansia al romanziere. Si avvicina il momento in cui il lettore dovrà alzare lo sguardo, chiudere il libro e…
Già, in quell’istante si gioca tutto, la storia può essere buona, però la sua chiusura deve lasciare nel lettore una sensazione di stupore. La magia è terminata, la realtà torna a riappropriarsi della nostra attenzione (i rumori della strada sembrano più forti quando si chiude il libro), e l’opera non deve essere soltanto impeccabile dal punto di vista della forma.
Bensì deve aver condotto il lettore in profondità.
Tutto è importante in una storia, ma non tutto possiede la medesima forza. Anche se non si tratta di un thriller, quando le pagine iniziano a finire ci si chiede cosa accadrà, quale sarà il destino del protagonista. E questo lo sa bene anche l’autore; deve consegnare a chi legge non solo qualcosa di impeccabile dal punto di vista formale. Bensì deve dimostrare che l’impegno della lettura consegna a chi ha perseverato una visione nuova dell’umanità.
Il finale non è importante perché mette il sigillo alla storia, e ci si congeda da quel mondo; secondo me deve sempre “sospendere” perché non è affatto finita. È solo un’interruzione, una pausa che riprenderà presto con la prossima opera.
Deve essere chiaro al lettore e anche all’autore che non si sono trovate le risposte, ma forse a malapena si sono formulate le giuste domande.
Probabilmente sono vittima di un colossale travisamento. Non credo che Hemingway abbia avuto simili pensieri mentre scriveva e cancellava i finali di “Addio alle armi”. Era solo alla ricerca della forma più efficace per terminare un’opera complessa.
Ne parlò anche con Scott Fitzgerald, che a questo proposito lo consigliò, ma mi pare che poi abbia fatto di testa sua.
Si può chiudere questo post ricordando ancora quanto sia difficile scrivere, e come un esordiente sottovaluti la fatica che la parola pretende. Il lettore, viceversa, potrebbe scoprire che non ci sono Muse a ispirare il lavoro di un autore, ma solo gastrite e fastidio per non riuscire a ottenere quello che si desidera.