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Scrivere, illustrare e fare le storie: intervista a Fabrizio Silei

Da Tunué @tunue

Ecco come si descrive Fabrizio Silei, illustratore, scrittore di romanzi per bambini e ragazzi (Premio Andersen 2012) e animatore di numerosi laboratori di creatività:

fabrizio_silei
Così questo sono io, uno che adora raccontare storie perché dalle storie è stato sedotto in tenerissima età. Un narratore che nel raccontare cerca un senso alla propria vita e nel farlo getta un ponte verso l’Altro. La vittima di un innamoramento che cerca di trasmettere al lettore l’idillio di quel remoto momento facendolo innamorare non di lui, ma della storia e delle buone storie. Storie non sempre pacifiche, rassicuranti, ma che vogliono essere autentiche e contenere un po’ di “verità”.
Per questo forse sono finito a scrivere per i ragazzi e i bambini, perché ci si innamora da piccoli, da giovani, perché a loro soprattutto mi piacerebbe trasmettere questo dono perché li accompagni nella loro vita, fatta di tante vite quante sono le storie che incontreranno.

Scrittore, illustratore, contastorie: tre parole per riassumere il tuo lavoro. Immagina di dover spiegare ai tuoi giovani lettori come fai ad avere tre mestieri e in quale ordine, se c’è.
Intanto il mestiere è uno solo: quello di raccontare storie. Principalmente adoro farlo scrivendo, oppure semplicemente raccontando, a voce intendo. Anche qui si tratta di due mezzi molto diversi che hanno possibilità diverse e anche limiti differenti. Alcune storie si possono solo raccontare a voce: sono gli occhi, il gesto della mano, il tono che fanno quella storia e tu sai che non potresti scriverla perché diventerebbe un’altra cosa, un’altra storia. Siamo nel territorio dell’oralità, in una dimensione arcaica e affascinante, magica e affabulante a un tempo. Ascoltando chi sa raccontare si torna tutti bambini. È questa l’atmosfera da racconto di piazza, di stalla, di veglia intorno al fuoco che sfocia nel teatro di narrazione, nella tradizione dei cantastorie che adoro e ha a che fare con le mie radici, confina con la mia grande passione per il teatro d’animazione popolare, i burattini, la commedia dell’arte, le maschere, le marionette, il gioco. Cosa diversa è la scrittura, l’affinamento di una voce narrante, di una lingua, per raccontare una storia senza i gesti o l’enfasi (a meno che non la si legga ad alta voce) ma dando al lettore la possibilità di perdervisi nel silenzio della propria mente, di immaginare quella voce, di arrampicarsi su parole indelebili, scritte, scolpite per sempre, di percorrerle e di ripercorrerle. Qui il mestiere si affina e il miracolo della scrittura ha qualcosa di ancora più sorprendente di quello del racconto all’improvviso, perché frutto di un momento intimo nel quale il pubblico non c’è, non ti trasmette emozioni e soggezioni, ma c’è al suo posto il totem del lettore che ascolta e che è ancora più vasto, simbolico, sconfinato, è l’Altro, gli altri, a cui ci si racconta. Idealmente l’umanità intera e non più i presenti nella piazza o nel teatro, indipendentemente dal numero di lettori o dalle copie vendute.
Sì, maggiore responsabilità con la scrittura, minore indulgenza per parole che resteranno a misuraci e giudicarci.
E poi ci sono le storie raccontate con le immagini, i giochi più o meno concettuali che invitano i piccoli a farsi narratori, il mio aspetto di creativo e di artista che adora muovere le mani, sperimentare materiali… Oggi viviamo in una società iper-specializzata, ma io credo che occorra recuperare uno sguardo più ampio, sono decisamente un curioso, un tipotondo, poco quadrato insomma. La mia formazione storica, sociologica, in fondo finisce nei miei libri e nei miei romanzi, ma anche nei miei giochi e negli albi creativi e concettuali. Alla fine sono solo modi e strade diverse per invitare il bambino a una creatività consapevole, agita da protagonista. I nostri bambini dovranno affrontare problemi estremamente complessi, hanno bisogno di fare i conti con giochi e storie, estetiche e oggetti che non li vedano come semplici e passivi consumatori, ma come ideatori. Basta con le istruzioni per l’uso dei nostri nonni, abbiamo bisogno di creatività e idee in grado di risolvere i grandi problemi che ci attendono. I bambini vanno preparati per questo, anche se purtroppo la tendenza generale (scuola, mercato, ecc.) non è affatto questa. Ma “sarebbe troppo i’ dire” come si dice a Firenze quando il discorso si fa troppo lungo.

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Fabrizio Silei, un dinosauro e numerosi piccoli artisti

Il tuo modo di illustrare attraverso le sculture di carta non restituisce solo una bella immagine che non ti stanchi mai di esplorare, fa qualcosa di più: fa venir voglia di ritagliare, di assemblare, di costruire – trasforma la storia in gioco, non più da leggere ma da fare. Come è nato questo stile? Come viene recepito dai bambini che partecipano ai tuoi laboratori?
Le tue parole mi fanno molto piacere, perché vanno al cuore del problema. Intanto illustrare non mi interessa. Adoro l’illustrazione, potrei fare l’illustratore, di fatto in qualche modo lo faccio, ma non mi interessa e non mi sembra che il termine illustratore dia il senso di quello che faccio. A volte illustro delle mie storie, ma non illustrerei storie altrui, o dei classici… non mi interessa.
Mi sento più un creativo, un designer, un grafico, a volte uno scultore o un fotografo insieme. Al di là delle etichette e delle categorie, abbiamo delle possibilità e le adoperiamo.
Sempre però l’idea e il pensiero sono alla base del progetto del libro o dell’oggetto-gioco e prendono forma e immagine in questo pensare con le mani che ha radici antiche. Ogni volta con materiali e strade anche molto diverse. Il problema di molte illustrazioni, come dei cartoni animati, è spesso legato alla loro irraggiungibilità da parte del fruitore. Se un’immagine è straordinariamente e tecnicamente perfetta, o un’animazione 3D è incredibilmente realistica, siamo di fronte a un prodotto che può essere solo contemplato, fruito, acquistato. Che in qualche modo, come quando io guardo la Pietà di Michelangelo, ti lascia fuori, altro: irraggiungibile, appunto. Questo va bene, è un’esperienza estetica più o meno autentica, ma non per quella che è la mia visione del rapporto adulto-bambino. Quando un bambino vede un mio topolino di carta fatto con tre pieghe e un foro è di fronte a un prodotto di design, anche bello e a suo modo perfetto, ma raggiungibile.
Non occorrono pennelli e acrilici, o programmi 3D dei quali si ignora l’esistenza. Quel topo è chiaramente solo un pezzo di carta con un buco. È affabulante però, e allora si può provare, ci si può fare avanti, è raggiungibile. Il bambino passa da fruitore a creatore. Avviene anche di fronte a tante opere contemporanee, apparentemente raggiungibili, che ti fanno venir voglia di provare, non importa se poi non si diventerà Picasso.
Un grande illustratore mio amico, che ha sviluppato doti di segno e di sintesi straordinarie, mi ha mostrato un giorno i suoi animali di carta con grande orgoglio. Erano più sinuosi e eleganti e verosimili dei miei, ma erano anche irraggiungibili per qualsiasi bambino, da contemplare appunto, da acquistare. Anche io all’inizio, con Pinocchio di Carta, o quando lavoro il legno e faccio una marionetta, faccio cose difficili e irraggiungibili. Sono prove di forza che affermano l’artista ma negano la relazione imitativa e educativa. È come se dicessero: Io sono, tu no! Non è di questo che hanno bisogno i bambini. Sono pieni e circondati da app e giochi da consumare passivamente. Con Cartarte, L’inventastorie o C’era una volta… cerco invece di rendermi imitabile e raggiungibile, di far sentire che basta poco per fare molto. Di lavorare sui concetti e sulle soluzioni alternative. Il messaggio è: tu puoi!
I cartoni animati raccontati in Cartarte sono raggiungibili, non sono fatti al computer, ma sono ironicamente semplici scatole di cartone ritagliate e “animate”. Dietro queste macchine fiaba concrete ci sono tecniche che ricordano le marionette, le ombre, gli automi settecenteschi, i burattini e recuperano la manualità del bambino, la componente materica. Le istruzioni sono generali su materiali e strumenti. Il messaggio è: copiatemi, ma andate oltre divertendovi a giocare a questo gioco. Quando nei miei laboratori il genitore mi chiede di fare esattamente l’esempio che ho proposto so di essere di fronte a un consumatore che vuole quell’oggetto per suo figlio e devo rimetterlo in riga, spiegargli che lui e suo figlio devono fare qualcosa di unico, che sarà solo loro: un piccolo miracolo, altro che supermarket! Poi la soddisfazione e la scoperta di sé è di solito immensa per entrambi.
Insomma, non voglio dilungarmi troppo. Finirò così: immaginate gli occhi dei bambini che a un mio laboratorio si sentono dire: Avete portato la carta? Sì! urlano. E il lapis e la gomma e le matite e le tempere… Sì! Sì! Sì! Ecco mettete via tutto tranne il foglio di carta. Di fronte a questo spiazzamento muore la logica del bel disegno e del copia-il-pupazzetto-di-turno, tutti tornano uguali, non c’è più chi dice: non so disegnare. Il gioco è un altro e anche loro sono altro dal solito e dalle etichette quotidiane.

sculture

animali fantastici realizzati dai bambini

Nel tuo lavoro, accanto alla creatività giocosa, c’è la tensione verso una serie di tematiche forti, di spiccata connotazione sociale. In molti romanzi parli di guerra, ingiustizia, razzismo, dolore, paura, attraverso gli occhi di personaggi bambini o adolescenti. Che cosa significa per un adulto adottare questo punto di vista?
Come dico sempre i miei libri raccontano il mio mondo, le mie passioni e anche le mie paure, forse le mie ossessioni. Non è che scelgo cosa raccontare, è che il mondo intorno si muove e tu ci vivi dentro e lo senti muovere e hai bisogno di dire la tua sulle cose a cui tieni e magari passi mesi a studiare e leggere su un certo argomento senza sapere che poi quelle notizie lì avrai bisogno di farle finire in un libro o ci finiranno tuo malgrado.
Non è sempre una sequenza causa effetto chiara e diretta, è mediata. Per esempio, io so che ho scritto Il bambino di vetro per una serie di motivi, ma al primo posto se devo razionalizzare metterei il grande dibattito pubblico che c’era stato qualche  mese prima che iniziassi a scrivere su Eluana Englaro. Ora il romanzo non c’entra nulla, racconta una storia tutta diversa e non dà tesi riferibili a quel fatto. È una storia che avevo da raccontare a proposito della malattia, della morte e dell’amicizia? Non lo so? Dice cosa penso della questione Englaro? Assolutamente no! Eppure so che viene da lì, da tutti quei discorsi intorno a questa ragazza o a quel che ne restava.
In altri casi, come nell’Autobus di Rosa, il collegamento è più diretto, l’ho raccontato tante volte: Obama Presidente in America e proposte su classi per soli bambini immigrati e carrozze del metrò per soli milanesi in Italia. Insopportabile! Così ho raccontato quella storia.
Ma veniamo al cuore della tua domanda. Che cosa significa per un adulto adottare il punto di vista di un ragazzino o di un bambino, o addirittura, aggiungo io, di una ragazzina o di una bambina?
Ecco, qui io credo che si tratti di un piccolo miracolo. In un romanzo in uscita a settembre, Katia viaggia leggera, io racconto come se fossi una ragazzina di quattordici anni di oggi, mi innamoro, desidero, piango, rido, mi arrabbio. Com’è possibile? Beh, non lo so. Con i miei figli tredicenni maschi è difficile capirsi, eppure nel momento della scrittura questa difficoltà si annulla e io divento Katia. Un miracolo, il miracolo della scrittura. Non mi interessa indagare oltre. Ai miracoli occorre credere quando ci accadono, può essere pericoloso disturbarli troppo.
Questo romanzo, ad esempio, per tornare ai temi della mia scrittura, assolve a due scopi: il primo dimostrare che posso ambientare una storia in qualsiasi tempo e luogo io conosca abbastanza bene nonostante la mia passione per la Storia e la mia convinzione che per parlare del presente e capire chi siamo a volte sia meglio voltarsi indietro e raccontare del nostro passato recente. Sfuggire dunque dall’idea-etichetta di scrittore di libri sul fascismo e il secondo dopoguerra; il secondo è raccontare una storia che ponga al lettore una domanda etica sulla nostra società di furbetti del quartierino, tangenti e supericchi. La domanda è: Ha ancora un valore essere delle brave persone?

pinocchio adesso albero

illustrazione tratta da Pinocchio adesso

In un libro (Cartarte) mostri l’interno del tuo laboratorio e racconti di come sia un posto speciale e fonte d’ispirazione. Che cosa non deve mancare in un laboratorio di piccoli creativi?
Direi senz’altro la libertà e, per dirla con Rodari, il bambino come fine, il che non vuol dire l’assenza di regole del gioco. Non la libertà malintesa che già denunciava Munari quando raccontava di maestre che lasciavano i bambini completamente liberi di fare e soli. Se dai la creta a dei bambini senza dargli un gioco sensato di tipo creativo per la maggior parte faranno una battaglia di palle di creta. Se vuoi fare un lavoro perfetto con tuo figlio proiettandoci le logiche dell’adulto e i suoi standard, con la giraffa che non zoppica e carina, fatti da solo la tua giraffa, per il bambino e anche per me è perfetta e più espressiva la giraffa zoppa. Non so se mi  sono spiegato: proiettiamo troppe logiche ed etichette adulte sui bambini.

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i libri di Fabrizio Silei (clicca!)

C’è un personaggio dei fumetti, o una serie o una storia a fumetti, cui ti senti particolarmente legato? Sarei curiosa di sapere perché.
Il fumetto della mia infanzia non è stato Topolino, mi piacerebbe dire i filosofici Mafalda o Peanuts che adoro, ma la verità è che leggevo e amavo Alan Ford e il gruppo TNT e sono cresciuto con le sgangherate avventure di quella banda di poveracci. Grunf, l’inventore, era il mio preferito insieme a Bob Rock e il sempiterno Numero Uno. Grande disegnatore Magnus e grande sceneggiatore Max Bunker. Poi vi confesso che ho tutta la collezione dei texoni gialli, prima edizione. Sì, diritti dell’uomo e tutto il resto, ma ogni tanto sarebbe bello che tre pugni ai cattivi solo e sempre cattivi salvassero il mondo come nelle fiabe. E poi è infantilmente rilassante sapere che il vecchio Tex e il sui pards non moriranno e non perderanno mai.

faina

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