Credo che la molla che mi ha spinto a diventare prima lettore e poi scrittore di fantascienza siano state le letture giovanili dei classici del genere, in particolare i libri di Jules Verne.
E fra questi classici sicuramente posso ricordare “Dalla Terra alla Luna” e “Ventimila leghe sotto i mari” che, da soli, bastavano e avanzavano per far galoppare la fantasia di ogni ragazzo… dell’epoca.
Già, perché ho l’impressione che in quest’epoca di Internet, Facebook, Playstation e video giochi più veri del vero la componente visuale abbia prevalso su quella immaginativa, tant’è che in un tempo relativamente breve ho assistito a un generale impoverimento delle pubblicazioni in questo genere di letteratura.
Intendiamoci: sono felice che la tecnologia ci abbia portato verso mete che parevano irraggiungibili e che – in un certo senso – hanno reso reale quel che in precedenza era… solo fantascienza. Questo però ha forse impoverito le nostre aspettative e la nostra capacità di immaginare per il semplice fatto che grazie a queste conquiste ogni cosa ci sembra possibile e l’atteggiamento prevalente sembra essere del tipo “aspettiamo e prima o poi tutto accadrà”.
Complice anche l’incredibile progresso degli effetti visuali nei film, che possono farci vedere coi nostri occhi quel che prima era solo immaginabile (e io adoro queste cose, quindi sono complice anch’io!).
Del resto chiunque può vedere come nell’arco di un paio di decenni molte testate – e qui non posso fare a meno di ricordare le mitiche serie Cosmo Oro e Cosmo Argento di Editrice Nord – siano semplicemente scomparse.
Dunque la fantascienza come genere letterario in via di estinzione o come una specie di Cenerentola fra i generi letterari?
Ammesso che sia da considerare un genere letterario: qui i pareri sono discordi, il dibattito su questo argomento non è recente e magari se ne potrà discutere un’altra volta.
Perché scrivere fantascienza?
Dunque, perché scrivere fantascienza? E come ci si pone di fronte al classico foglio bianco che attende di essere riempito?
Sul perché scrivere fantascienza ho espresso il mio parere su un articolo comparso nel mio blog (chi fosse interessato può leggerlo qui) e che in due parole riassumo in questo modo: esistono ancora degli individui appartenenti a una sottospecie dell’Homo sapiens che ancora coltivano visioni e le vogliono raccontare. Quella dei visionari a oltranza.
Lo scrittore è un cantastorie, sempre e comunque: possono essere storie vere (il saggista o lo storico) o possono essere inventate (tutti i romanzi), ma lo scrittore di fantascienza racconta qualcosa di molto diverso.
Racconta di cose che non esistono e che con ogni probabilità mai esisteranno: lo scrittore di fantascienza è una specie di esploratore di ciò che – paradossalmente – non potremo mai conoscere.
Il che pare una contraddizione – e in effetti lo è – ma la ricompensa per chi fa fantascienza sia attiva (chi la scrive) o passiva (chi la legge) è lo sganciamento da ogni vincolo e da ogni costrizione. Cioè – perlomeno durante la lettura o la scrittura di un romanzo di fantascienza – ci si rende in un certo senso più liberi, perfino – e passatemi il termine – in grado di lasciar perdere tutto quanto ci circonda. Potremmo chiamarlo un temporaneo estraniamento totale.
Veniamo all’aspetto pratico della cosa, che affronterei per argomenti. Possiamo fare una lista di questo genere, che ad ogni modo non è esaustiva:
- da dove viene l’idea?
- come la si sviluppa?
- che lavoro di documentazione si rende necessario?
- è più facile o più difficile rispetto ad altri tipi di racconto?
Da dove viene l’idea?
Nel mio caso da una domanda che mi viene lì per lì: in un caso mi sono chiesto se davvero le teorie sulla durata del Sole erano esatte, e la domanda che mi sono fatto è stata “Ma se qualcuno si fosse sbagliato?”. Ragionevolmente impossibile, ma il tarlo ormai cominciava a scavare nel territorio del dubbio, e quello è stato l’inizio (si tratta di “Un raggio di luce nel cielo”, edito da Genesis Publishing).
Ancora, ho provato a immaginare un’Italia in cui la Storia degli anni Quaranta ha preso una piega diversa e in cui il Primo Contatto con creature aliene diventa realtà. Quindi la domanda era “Come potrebbe essere l’Italia se NON fosse entrata in guerra”? (“Diario di Sabet”, edito da GDS)
Oppure, ho affrontato la dissoluzione di una società i cui valori sono annientati dai nuovi arrivati giunti dalla Terra. Di conseguenza volevo rispondere al quesito “Cosa accadrebbe se domani arrivasse qualcuno che vuole soggiogare il mondo che conosco?” (si tratta di “La pianura dei demoni”, edito da GDS).
Come si sviluppa l'idea?
A questo punto la domanda c’è ma lo sviluppo è tutto da fare. Non esiste una regola per questo, ma posso dirvi come faccio io.
Parto dalla scena finale. O dalla frase che non riesco a togliermi dalla testa e che rappresenta l’ultima cosa da scrivere prima della parola ‘fine’.
Lo faccio sempre.
So dove voglio arrivare: all’immagine che ho in mente su come deve finire la storia. E in definitiva la prima cosa che scrivo è il finale.
A questo punto scelgo il punto di partenza e vado avanti con una mezza idea che prende corpo man mano che il racconto prosegue.
Avviso: se qualcuno vuole utilizzare il metodo “Fiocco di Neve” – o altri metodi simili – per fare un romanzo è liberissimo di farlo. Io non lo uso e in linea generale lascio che le cose accadano. Certo, le guido verso il punto a cui voglio arrivare, ma è un po’ come se fossero i personaggi a fare il lavoro.
Diciamo che è come se volessi andare a Roma partendo da Trento: so che voglio arrivare all’Urbe, ma non necessariamente prenderò il percorso Trento-Padova-Bologna-Firenze-Roma. Anzi, di solito è l’esatto opposto: ho un’infinità di potenziali percorsi – tutti buoni – per arrivare; quel che sceglierò lo vedrò strada facendo.
Per le altre domande, l'appuntamento è alla prossima puntata.
Gabriele Pavan