Da molti anni la scuola è sotto attacco: dalle prebende concesse agli istituti privati di sua santità con l’insensato pretesto della libertà d’istruzione, si è passati a favorire apertamente la privatizzazione impostandone gli strumenti e le premesse anche nella scuola pubblica e nell’università. Con buona pace di quelli che “è finito il tempo delle ideologie”, questo disegno vago e al tempo stesso arrogante era sostanzialmente un frutto dell’ideologia liberista che ha trovato slancio nella crisi innescata dalla medesima. Ma più che un frutto maturo si tratta di un frutto marcio dal momento che il modello di riferimento anglosassone cui andavano le preci dei nostri riformatori brancolanti nel tunnel dei neutrini era da tempo in crisi conclamata. Mentre classifiche se non sospette (come affermano parecchi docenti che si sono occupati della cosa), comunque costruite appositamente per soddisfare la vanagloria delle università dove si forma la classe dirigente Usa, indicano il cammino ai nostri “privatisti”, quel modello sociale e didattico è entrato in crisi, tanto che ancora nei primi anni del nuovo secolo l’amministrazione Usa ha dovuto riconoscere che è ormai imprescindibile “importare” almeno il 50% dei ricercatori.
Ora queste dinamiche stanno accelerando e la National Association of Independent Colleges and Universities ha lanciato l’allarme sul fatto che molte università saranno destinate a chiudere. Anzi un suo portavoce, il professor Clayton Christensen di Harvard è stato più specifico ha detto che circa 4000 tra università e centri di istruzione di vario tipo saranno destinati a chiudere nei prossimi 15 anni, praticamente la metà di quelli esistenti (vedi qui ).
La ragione è una sinergia tra modello didattico, nuovi media e realtà economica. Le minori prospettive di guadagno per i laureati stanno mettendo in gravissime difficoltà il settore dei “prestiti d’onore” tanto che si prefigura lo scoppio di una bolla anche in questo campo. Inoltre le minori disponibilità economiche della middle class e la maggiore prudenza nella concessione dei prestiti, rendono improponibili sostanziali aumenti delle rette, tanto che ormai le spese superano del 60% le entrate e molti istituzioni cominciano a chiudere. C’è poi un problema a monte: un orientamento culturale indirizzato alla specializzazione nel suo senso meno nobile e un sistema didattico fondato sui test, rendono facile, se non addirittura più funzionale l’insegnamento on line, favorendo la scomparsa delle scuole “fisiche”. Purtroppo una parte essenziale dell’istruzione è proprio il confronto, lo scambio e la discussione con docenti e compagni resa possibile solo dalla scuola in carne ed ossa per così dire.
Tutto questo naturalmente porterà ad un abbassamento drammatico del livello dell’istruzione generale che rimarrà alto solo per le classi dirigenti, per chi può pagare, cosa che peraltro non disturba affatto le oligarchie, perché anzi l’esclusione è uno dei loro obiettivi. E va detto che il fenomeno non riguarda solo le università o i corsi di studio finali, ma l’intera scuola, con quelle pubbliche praticamente abbandonate a se stesse e quelle private sempre meno accessibili.
Così abbiamo un tragicomico effetto paradosso: la crisi ha fatto esplodere le carenze del modello educativo anglosassone, mentre da noi ha accelerato le istanze ideologiche ad aderire a quel modello. Nulla di strano per un Paese che arriva con trent’anni di ritardo, in eterno controtempo.