Seconda regia di Massimo Troisi, circa tre anni dopo il felice esordio con Ricomincio da tre, Scusate il ritardo, pur potendo apparire di primo acchito meno brillante e coinvolgente rispetto alla citata opera prima, delinea, con modalità più sicure ed un maggiore senso di compiutezza, le tematiche proprie dell’autore, tra autobiografia, introspezione e minimalismo: in particolare vengono affrontati dubbi e tormenti relativi ai rapporti con l’altra metà del cielo, i quali si stempereranno man mano nei lavori successivi, sino all’amara constatazione espressa nel finale di Pensavo fosse amore invece era un calesse, ’91, ultimo film da lui diretto, “Io credo che in particolare un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra loro”.
Nell’interpretare il protagonista Vincenzo, Troisi sembra non distaccarsi molto dal Gaetano della precedente pellicola, ma in realtà ne rappresenta il suo opposto, un trentenne disoccupato saldamente legato alla famiglia (la madre, una sorella sposata con una figlia, un fratello affermato autore teatrale del quale è invidioso), che non intende allontanarsi dalla sua città natale, Napoli: timido ed insicuro, ipocondriaco e fatalista (“io la vita la prendo come viene, solo che a me viene sempre una chiavica!”), si lascia scivolare ogni cosa addosso, tra abulia, indifferenza ed insofferenza. Quest’ultima viene espressa anche nei confronti di quelli che sembrerebbero essere i suoi sicuri appigli esistenziali al di là delle mura domestiche, come l’amico Tonino (Lello Arena), di cui ascolta i ripetuti sfoghi per essere stato lasciato dalla fidanzata, e Anna (Giuliana De Sio), una donna abbastanza determinata nella sua apparente fragilità e dolcezza, con la quale inizia una relazione, senza molta convinzione, spinto dalla forza d’inerzia.
Anna, reduce da una storia non propriamente felice, cerca in un uomo conforto e sicurezza, al di là del semplice rapporto fisico, si lascia coinvolgere dalla tenera ritrosia di Vincenzo, se ne innamora, ma non può che rimanere sconcertata di fronte alla sua atarassia sentimentale: se lei gli rivolge un convinto “ti amo”, lui farfuglia un astratto “mi fa piacere”, per non parlare dei tentativi caduti nel vuoto volti a costruire un dialogo sincero tra di loro; solo quando la donna, ormai stanca di un amore all’insegna dell’univocità, lo lascerà, il nostro, pur perdendosi nei rivoli propriamente maschili della vacua ricerca di un perché, comprenderà senso ed importanza della loro unione, ora con Tonino, risorto a nuova vita affettiva, a fare da consigliere…
Coadiuvato nella sceneggiatura da Anna Pavignano, Troisi riesce nella non facile impresa di riallacciarsi alla tradizione del teatro partenopeo, in particolare alle opere di Eduardo De Filippo, nel rappresentare con ironia tematiche complesse e nell’estenderle però oltre l’idea di napoletanità, senza cadere in luoghi comuni o nella facile retorica, girando per lo più in interni e “bloccando” le varie situazioni, senza indulgere in particolari movimenti della macchina da presa, sottolineando tra dialoghi ed irresistibili monologhi (splendido quello incentrato sulla Madonna che piange), giocando sulla mimica gestuale e facciale, l’insicurezza della propria generazione, che, tra timori e dubbi, sembra soffocata o comunque spaventata dai suoi stessi sogni ed ideali espressi poco prima, ritirandosi confusa nella tranquilla placenta del buon nido borghese, protetti dal liquido amniotico delle proprie idiosincrasie.
Nel visualizzare tre diversi modi di concepire i rapporti di coppia, l’ eccedere nelle attenzioni rivolte all’amata proprio di Tonino, la forza e la voglia di lasciarsi andare all’amore di Anna, la paura e la titubanza espresse invece al riguardo da Vincenzo, Troisi si cala totalmente nel reale, affidando ad un rauco, strozzato, “resta!” rivolto alla donna ormai sulla via di lasciare Napoli, che rimane sospeso in un fermo immagine prima dei titoli di coda, senza alcuna risposta, la necessità di prendere una posizione relativamente al proprio disagio esistenziale, rendendo possibile ogni interpretazione su come la storia andrà a finire.
Intimista e malinconico, Scusate il ritardo, appare, oggi come ieri, fuori dal tempo nelle modalità rappresentative, ma attuale nel suo viaggio introspettivo all’interno dell’animo umano, percorrendo i binari di un umorismo ora pacato, ora vagamente cinico, per arrivare ad una riflessione sincera e mai banale sul “grande enigma del cuore e della mente”, riprendendo le parole di Calvero/Chaplin in Luci della ribalta, da sempre in attesa di una soluzione quanto meno rassicurante, se non propriamente definitiva.