Scusate il ritardo...

Creato il 19 gennaio 2011 da Bruno Corino @CorinoBruno

«Quando lo stesso atto viene ripetuto all’interno di una relazione stabile, i rapporti di forza tra le due persone cambiano: sottomissione dopo sottomissione, alla fine siamo portati ad agire come automi, pronti a scattare e a ubbidire al minimo cenno di comando!».
Risposta di Oude:
ma perché non anche il contrario? (secondo il classico detto napoletano: “dalle e dalle si scassano pure 'e b....!”). Al di là delle tue inarrivabili sottigliezze dialettiche a me sembra che, semplificando, sia inevitabile, anzi una caratteristica necessaria dell'esistenza umana quella di "scontrarsi" continuamente (tu le chiami relazioni) siamo come le biglie in un sacchetto agitato da un bimbo: ci scontriamo e "plasmiamo" a vicenda in continuazione (magari ammaccandoci un po’)
quello che tu chiami "prevaricazione" è per me normale "metabolismo": fin dal primo respiro siamo stati "prevaricati" da chi ci ha sculacciato per strapparci il primo vagito e ne è seguita una continua serie di soprusi "educativi" che ci hanno fatto diventare quelli che siamo e imparare tutto quello che sappiamo fino all'ultimo e più grande sopruso che chiamiamo "fine dei giochi" o morte
per questo non riesco a sentire come atti di dominanza/sottomissione gli atti di normale interazione tra persone conosciute o sconosciute: non è possibile evitarli pena la totale solitudine foriera dell’ottundimento cerebrale (per mancanza di stimoli) e perché sono l’unico “prodotto” di una sana competizione non esistono vincitori e perdenti “totali”: anche chi ti “prevarica” saltando la fila ha qualcosa da insegnarti: per esempio a non fare quello che sta facendo lui in quel momento; la sua “interazione” paradossalmente è positiva (ti insegna qualcosa) e, se ci rifletti, non vale l’adrenalina che ti spari nelle coronarie con una solenne incazzatura.
ciao Bruno, sei fortissimo!
Risposta di Bruno Corino
Ciao Oude, e bentrovato!
Sono d'accordo che non sempre si è disposti ad ingoiare i rospi, e che prima o poi si può scoppiare! E ciò che tu chiami "metabolismo", io lo definisco "processo di assimilazione"; la prevaricazione non sempre ha una funzione negativa; nel rapporto educativo, ad esempio, con i bimbi si è portati a prevaricare; finché non diventano autonomi e acquisiscono un punto di vista proprio; il problema è continuare a trattare le persone (adulte) come se non fossero capaci di una loro autonomia, insomma continuarli a trattare come dei bimbi; così può accadere nelle relazioni di coppia o tra genitori/figli, ecc.; infatti, se hai letto il mio penultimo post (Il comportamento come sistema), considero queste modalità come modalità "universali" (ontologiche, amiamo dire noi filosofi); determinate però storicamente e culturalmente; la faccenda si lega alla questione dei diritti: acquisire un diritto vuol dire porre fine a un atto di prevaricazione (la questione Fiat di questi giorni insegna); intendo dire, manzonianamente, che la prevaricazione è una modalità non eliminabile dai comportamenti interumani, ma gli "atti" si possono estinguere; inoltre, dal mio punto di vista, è opportuno svelare non solo il meccanismo della prevaricazione, ma anche il modo per renderlo riconoscibile ed identificabile; insomma, Oude, qui si tratta di capire meglio come funzionano le dinamiche del potere, il che non è poco...
Grazie
Risposta di Oude
«Qui si tratta di capire meglio come funzionano le dinamiche del potere, il che non è poco…».
È tantissimo ed è un compito meritorio che non intendo in alcun modo sminuire
quello che cerco di dire nel “minimizzare” l’enfasi sul binomio prevaricatore/prevaricato è che c’è un continuo, naturale mescolamento tra le due posizioni e a turno ognuno risulta, come due lottatori di grecoromana, in posizione dominante e sottoposta: in tale situazione chi può dire di esercitare il potere se è per definizione “momentaneo” e soprattutto inevitabilmente “reciproco”?
nella coppia o tra genitori e figli si è a turno vittime e carnefici, molto spesso inconsapevoli e questo contribuisce al continuo “rimodellamento” della nostra materia, con aggiunte e sottrazioni che ci fanno passare dal blocco di marmo alla statua; questo io non riesco a sentirlo come “potere” ma come indispensabile interazione.
«Acquisire un diritto vuol dire porre fine a un atto di prevaricazione…»
Vero e indiscutibile: quello su cui si può discutere è sugli strumenti più o meno idonei ad ottenere lo scopo.
Tu citi Mirafiori come un esempio in cui sarebbero stati lesi dei diritti che un referendum “democratico” avrebbe dovuto o potuto ripristinare.
Al di là delle convinzioni politiche od etiche personali mi pare si possa portare l’attenzione su due punti:
- quanti gridano alla lesa maestà del “Diritto” hanno esaminato a fondo se non sia già stato violato e calpestato da comportamenti inadeguati (scarso impegno produttivo unito ad assenteismo oltre il doppio della media mondiale: documentato da statistiche non di parte) e se tale diritto “regge” anche in sedi diverse da quelle che conosciamo?
Cerco di spiegarmi: in un mondo globalizzato certe conquiste sindacali (la messa in dubbio delle quali ci scandalizza) non solo non sono note ma neanche ipotizzabili; come si fa a competere con questi “mondi” dal momento che anche il lavoro deve avere finalità adeguate? (e non mi basta sentire il vecchio ritornello che occorrerebbe estendere a tutti le garanzie che ci sono da noi, dal momento che la storia insegna il contrario).
I principi sono sacrosanti ma talmente “infrangibili” che non si possano “riformare” alla luce di nuove (forse impreviste) situazioni globali?
Quello che a prima vista può sembrare un ritorno a concezioni che si pensava ormai superate è una lesione dei diritti o un normale adeguamento a nuove condizioni di lavoro e di mercato mondiale?
In soldoni: posso onestamente sostenere che se un cinese o un polacco costa all’azienda mediamente un quarto del costo della manodopera nostrana (tra salario molto inferiore e assenteismo vicino allo zero) questa non abbia il “diritto” di cercare i profitti dove può farli? (forse sarebbe il caso di rinunciare allo snobismo di certa sinistra che ancora oggi ha le convulsioni al sentire la parola “profitto” come se non fosse il necessario presupposto per tenere in piedi un’azienda cui, spesso ipocritamente, si negano aiuti di stato in nome di un presunto liberismo)
Questo dovrebbe essere “lecito” in una economia liberale governata dalla vecchia legge della domanda e dell’offerta, sicuramente correggibile dall’intervento dello stato (che nel caso specifico ha brillato per la sua assenza) per motivi assolutamente nobili come la dignità e la sopravvivenza dei cittadini.
Ma in tal caso non parlerei più di piano industriale ma di doverosa, mutua assistenza:
- è veramente democratico lo strumento del referendum? In sede politica sarei tentato di dire di sì dal momento che ricalca un altro tipo di consultazione popolare che è il voto di legislatura e che fa inevitabilmente emergere stili di comportamento politico (di parte) che sono eventualmente modificabili dalla votazione successiva.
Ma legare la sopravvivenza di una fabbrica e quindi il lavoro per quasi trentamila persone (Fiat e indotto) in una città quasi totalmente dipendente da essa da quasi un secolo ad un “referendum” mi sembra un grave azzardo se non proprio un palese caso di “abuso di potere” in quanto la scelta apparentemente singola e “privata” (legata cioè ad un atto di privata volontà di adesione o di negazione) è in realtà una scelta che prevarica, in qualsiasi risultato finale, la volontà “espressa” e soprattutto i famosi “diritti” di chi verrebbe privato di un bene essenziale alla sopravvivenza della sua famiglia e cioè del lavoro in maniera del tutto forzosa nel caso che il risultato non corrisponda alle sue scelte.
Quindi ritorna il circolo vizioso: se una mia scelta condiziona così pesantemente la vita di un altro che tipo di diritti sto esercitando? O meglio può essere chiamato diritto per me (e difeso fino all’harakiri) quello che manifestamente risulta un sopruso per altri? Chi sta commettendo un abuso verso chi?
Forse sarebbe più logico (e onesto?) che chi non desidera continuare un rapporto di lavoro divenuto “inaccettabile” lo possa fare semplicemente non firmando il nuovo contratto piuttosto che costringere (con la sua scelta referendaria ) quelli che, per convinzione o necessità sarebbero disposti a sottoscriverlo, a perdere un bene cui hanno sacrosanto diritto (se lo scelgono) perché costretti da una scelta (prevaricazione?) altrui.
Cosa ne dice il filosofo “del potere”?
Silver Silvan scrive
Se andiamo a guardare, a partire dalla nascita, subiamo un'infinità di prevaricazioni da parte di chi ci sta intorno, al fine di riuscire a stare al mondo e in mezzo agli altri: dalle norme igieniche, alle nozioni tecniche sul funzionamento dei più svariati oggetti, alla scuola, ecc. Il tutto per non comportarci come selvaggi, ma per acquisire la necessaria flessibilità che ci aiuta a tollerare la presenza e le esigenze degli altri. Non a caso, quelli che vivono da soli in cima ad una collina, si inselvatichiscono, potendo godere di una maggiore libertà determinata dal non dover tenere presenti le esigenze altrui, ma solo le proprie. Ognuno di noi ha soglie di tolleranza diverse: non avendo mai fumato, l'odore del fumo mi infastidisce moltissimo mentre, per chi è un ex fumatore, la sniffata di nicotina può non rappresentare un problema; di conseguenza uno che mi fuma ad un metro di distanza dentro una stanza rappresenta per me una molestia, per qualcun altro no. Apprezzerò di buon grado, insomma, se me la eviterà chiedendomi il permesso, cosa che gli negherò volentieri con un sorriso smagliante per farmi perdonare la rinuncia e l'uso di un ruffianissimo:"Preferirei di no".
Questa mattina, nella sala d'attesa di uno studio medico, mi sono sorbettata le vicende private e lavorative di una donna al cellulare: ero in buona e non ho detto niente, mi sono limitata a fulminarla con lo sguardo e, per fare la seconda telefonata, si è alzata ed è uscita dalla sala d'attesa, attenuando il fastidio della sua voce garrula e indiscreta in un luogo inopportuno. Questa mattina non mi era successo niente di che: forse, se avessi avuto una serie di contrattempi tali da spazientirmi, avrei detto qualcosa, magari in tono inviperito. La soglia di tolleranza, ribadisco, è variabile e soggetta a molti fattori. Tempo fa, il libro di Piero Angela "Premi e punizioni", parlava proprio delle nostre giornate tipo caratterizzate da una serie continua, di cui siamo spesso inconsapevoli, di sensazioni positive o negative che possono influenzare il nostro comportamento e le nostre reazioni.
Io non riesco a ragionare in termini di strategie relazionali: ragiono in termini di sopravvivenza esistenziale a fronte della continua ingerenza dell'ambiente circostante. Un po' come un albero che, nel corso della sua vita, è costretto a subire la siccità e l'eccesso idrico, i parassiti, le patologie fungine, i virus, la grandine, il vento impetuoso, ecc. L'eccesso di rigidità comporta sempre una maggiore fragilità rispetto alla flessibilità: l'importante è mantenere una sorta di apparato radicale stabile, fatto di principi e consapevolezza dei propri diritti irrinunciabili sui quali è impossibile venire a patti, pena il deperimento del sé, e una chioma di rami flessibili che consentano di tollerare le intemperie senza grossi danni, permettendo di interagire con la bufera. Che la flessibilità dei rami possa essere connessa ad una sorta di strategia ingannevole nei confronti del vento, è un'ipotesi affascinante: alla prossima bufera, guarderò attentamente i rami per vedere se sghignazzano di soppiatto.
E' sicuramente vero che, nel corso di una relazione di lunga data, amichevole, di lavoro o affettiva, si crei una sorta di abitudine interattiva che parte dalla conoscenza dei punti deboli e forti delle persone, portando a dare per scontati certi comportamenti, tollerandoli o mal sopportandoli più facilmente per accumulo di tensione; a quel punto però sono determinanti le ragioni che uno si dà di quei comportamento. L'azione consapevole ha lo stesso peso di quella inconsapevole? Per me no. E uno che commette un atto di prevaricazione in preda all'ira, al dolore, allo sconforto, all'ubriachezza, ai farmaci? Ripeto, ci sono troppe variabili: parlare di strategie all'interno di un panorama così incostante, somiglia al voler prevedere l'andamento delle piogge nella prossima estate. Non a caso, non ci azzeccano mai.
Risposta di Bruno Corino
La qualità e l’intensità dei due commentatori meritano una visibilità maggiore. Sinceramente non so se ciò che scriverò sarà del tutto aderente ai commenti suesposti. E, dall’altro canto non voglio neanche tentare di convincere o persuadere alcuno della “bontà” della mia teoria. Tutt’al più vorrei (non solo in questa ma anche nelle precedenti occasioni) tentare di fondare con argomentazioni ragionevoli che esistono nella dimensione quotidiana delle modalità interattive “incastonate” nelle interazioni umane (ma anche non umane), che sono alla fonte dei legami, che ne permettono la variazione e che, infine, ne consentano la stabilità o lo scioglimento. Ognuna di queste modalità esercita uno specifico potere al fine di affermare il proprio Sé sul sé altrui. A me interessa comprendere in quali specifiche situazioni queste modalità vengono messe in atto e a quali dinamiche danno corso. Lo scopo a me è chiaro: è l’affermazione del Sé. Ciò che escludo dalla mia indagine sono le motivazioni, le giustificazioni o il modo in cui ognuno può legittimare i suoi comportamenti. Lo escludo perché so che sono sempre motivazioni “soggettive”: qualsiasi giustificazione viene data è sempre la giustificazione dell’Altro, e nessuno può mai entrare nella mente altrui e sapere se mente o dice la verità. Ciò che possiamo solo fare è osservare come l’altro si comporta. Dall’osservazione del comportamento posso “verificare” se i rapporti di potere, all’interno di una relazione, si sono modificati. In altri termini, ciò che a me interessa analizzare sono le dinamiche interattive. Queste dinamiche rispondono a delle strategie, indirizzate sempre all’affermazione del Sé sul sé altrui, strategie che – sempre per la ragione che come osservatore non posso mai entrare nella mente dell’altro – non importa, dal punto di vista analitico, se sono state messe in atto consapevolmente o meno, se sono dettate dalla cultura o dall’istinto. In secondo luogo, ciò che a interessa è individuare le affinità, i rapporti che esistono tra queste varie modalità interattive. In pratica cosa hanno in comune e cosa differenzia la prevaricazione e la competizione, la prevaricazione dalla seduzione, la competizione dalla seduzione; quali sono le rispettive modalità complementari; perché qualcuno ha il bisogno di avere un padrone, di avere una guida o di avere un modello da seguire. Quand’è che si può parlare di prevaricazione, di competizione o di seduzione (non dal punto di vista soggettivo, ma dal punto di vista “oggettivo”: individuando ovvero dei criteri per delimitare una modalità da un’altra). Poi analizzo i “contraccolpi” che ciascuna modalità interattiva può innescare: rancore/risentimento, invidia/disinteresse, gelosia/indifferenza. A cosa può condurre questo o quel contraccolpo. Come si innesca un conflitto, come si innesca una rivalità, come si innesca una complicità. Come può nascere un rapporto di sudditanza, di collaborazione o di cooperazione.
Non so se voi giocate a scacchi. Il gioco degli scacchi è sempre stato un ottima metafora della vita. Quando un giocatore muove un pezzo sulla scacchiera da giocatore non mi domando mai il motivo soggettivo che lo ha spinto a muovere quel pezzo, se l’ha fatto per distrazione o per un fine recondito. Ciò che valuto è il fine che la mossa ha sulla scacchiera, cosa cambia nella disposizione dei pezzi, se i rapporti di potere sono cambiati, se mi dà un vantaggio o uno svantaggio. A mano a mano che la partita va avanti, le mosse a disposizione di ciascun giocatore si riducono: all’inizio della partita le variazioni erano molteplici, man mano che il gioco va avanti il loro campo si riduce sempre di più. A un certo punto le alternative si esauriscono. Non voglio dire che vita è come una partita a scacchi. Ciò che voglio dire è che man mano che alcune dinamiche vanno avanti, le mosse a nostra disposizioni si riducono sempre di più. Non prevedo mai come va a finire il gioco: ad un certo punto uno dei due giocatori può anche dare un calcio e buttare tutto all’aria oppure stancarsi e smettere di giocare. Però se sono un abile giocatore posso “prevedere” in base alle mosse che l’altro fa quale può essere il futuro sviluppo della partita. Tutto qua.


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