Attentati e rappresaglie. La questione curda, nelle ultime settimane, è ripiombata nella sua dimensione armata: prima con le imboscate e gli attacchi esplosivi del Pkk (il Partito dei lavoratori curdi di Abdullah Öcalan, residente dal 1999 sull’isola-penitenziario di Imrali), che nel sud-est della Turchia hanno fatto almeno 40 vittime tra i soldati e scatenato nel paese un’ondata di commozione e indignazione; poi con la dura risposta decisa dal premier Recep Tayyip Erdogan, che ha già portato al pesante bombardamento delle posizioni dei guerriglieri tra le montagne del Curdistan iracheno e che potrebbe sfociare – all’inizio di settembre, dopo la fine del Ramadan – in assalti delle forze di terra direttamente nel territorio della Regione autonoma del Curdistan (il presidente Barzani, in ottimi rapporti che Ankara, darà facilmente il via libera). Ma sarebbe un errore micidiale limitare l’analisi al solo campo militare, forzarla riduttivamente nell’ottica manichea sicurezza/terrorismo o Stato/Pkk: per comprendere la complessità della situazione è invece necessario allargarla ai meno esplorati aspetti culturali e identitari, oltre che politici.
Il governo dell’Akp, il partito conservatore d’ispirazione islamica al potere in Turchia dal 2002, ha infatti perfettamente compreso che una soluzione esclusivamente per via militare è impossibile: e che è invece necessaria un’intesa con le forze politiche pro-curde e probabilmente con lo stesso Öcalan. Nel 2009 era stata lanciata la cosiddetta “apertura curda” (ku¨rt açilimi) per promuovere il dialogo politico e un’amnistia, in breve tempo però naufragata a causa di errori tattici e di ondate di arresti di uomini politici curdi – alcuni con cariche istituzionali locali – accusati di favoreggiamento: e del resto, data l’influenza egemonica del Pkk sul movimento nazionale curdo (un partito politico, chiuso e riaperto a intermittenza, da ultimo come Bdp “della pace e della democrazia”; numerose municipalità controllate nel sud-est; numerosissime associazioni culturali e altre ong), tracciare dei confini netti è impresa vana.
Oggi la partita si dovrebbe giocare tutta sulla nuova costituzione: che dovrà definitivamente trasformare la Turchia in una compiuta democrazia, assicurando a tutti i cittadini diritti e libertà fondamentali in linea con gli standard europei. La partecipazione al processo di redazione del Bdp è indispensabile, la recrudescenza terroristica e gli arresti che non si fermano – ad esempio, alcuni neoeletti deputati sono attualmente in prigione – la rendono alquanto incerta. Ma cosa chiederebbe? Essenzialmente, forme di pronunciata autonomia istituzionale e il riconoscimento della piena legittimità della propria cultura: a cominciare dall’insegnamento della lingua curda (almeno il Kurmanji opportunamente standardizzato, magari anche lo Zaza; l’altro dialetto è il Sorani) nella scuola pubblica. E alcuni hanno già preparato il terreno.
Come l’Istituto curdo di Istanbul, attivo dal 1992 nella città antica: che organizza corsi di lingua, frequentati in totale da oltre mille persone e soprattutto da studenti universitari; che pubblica libri di storia e letteratura, antologie di storie orali, la rivista letteraria in curdo Zend, un manuale di grammatica e il materiale didattico per i corsi; che cura i fondamentali dizionari curdo-turco e turco curdo; che organizza dibattiti, seminari, conferenze di alto livello. Il suo direttore storico Sami Tan, determinato e infaticabile ideatore di solidi progetti, lo considera “l’avanguardia del movimento curdo per la libertà”; ed è parte integrante dello Tzp-Kurdî (Movimento curdo per l’insegnamento e la lingua), un’organizzazione che unisce altri istituti curdi e si batte – attraverso l’organizzazione di corsi anche presso partiti politici o sindacati, di manifestazioni, di campagne di sensibilizzazione – per l’insegnamento della lingua curda: anche con forme di protesta eclatanti, come quella del settembre 2010 che ha spinto migliaia di genitori curdi a non inviare a scuola per una settimana i propri figli.
Me ne ha parlato anche la ricercatrice Ronayî Onen, di Mardin nel sud-est ma da 20 anni a Istanbul: che da due anni tiene l’unico corso di lingua curda a livello universitario, in quella privata di Bilgi. Mi ha raccontato dell’emozione e quasi delle lacrime del primo giorno di scuola, dei corsi per bambini – nell’ambito di un altro programma per l’integrazione degli immigrati attraverso la cultura – in cui insegna “a far pace con la propria lingua” detestata perché rende diversi; mi ha spiegato che l’insegnamento bilingue non è una rivendicazione giuridica ma l’unico strumento a disposizione per impedire la scomparsa del curdo, perché senza insegnamento formale le giovani generazioni scolarizzate esclusivamente in turco stentano a parlarlo; mi ha confessato che a volte ha speranza nel cambiamento e altre si abbandona al pessimismo, che si sente esclusa dal progetto nazionale turco perché non ha – come curda – gli stessi diritti di tutti gli altri. Solo la libertà d’insegnamento nella propria lingua madre garantita dalla costituzione potrà iniziare a farle cambiare idea.