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Se anche i ricchi piangono

Creato il 23 maggio 2011 da Albertocapece

Se anche i ricchi piangonoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Oggi Ilvo Diamanti su la Repubblica commenta di dati istruttivi e illuminanti dell’Osservatorio di Demos-Coop. Verrebbe da dire che le classi sociali sono state promosse o regredite, a seconda dei punti di vista, allo status di “ceti”. Processo a mio avviso sconfortante perché indica una percezione rinunciataria, offesa e probabilmente risentita della propria identità della propria collocazione sociale, del proprio peso all’interno dell’eterno conflitto.

Secondo Diamanti dalla “cetomedizzazione degli anni Ottanta – un neologismo ostico ma suggestivo, coniato da Giuseppe De Rita – si sta scivolando verso una sorta di operaizzazione”: le persone che si collocano nella “classe operaia” oppure fra i “ceti popolari” superano, per estensione, quelle che si sentono “ceto medio”.   Il 48% del campione nazionale dice di sentirsi “classe operaia” (39%) oppure “popolare” (9%). Il 43%: “ceto medio”. Il 6%, infine, si definisce “borghesia” o “classe dirigente”. È l’unico settore sociale stabile. (Le classi privilegiate, d’altronde, sentono la crisi meno delle altre. Anche se la temono.) Invece, il peso del “ceto medio” è sceso di 5 punti negli ultimi tre anni e di 10 negli ultimi cinque. Simmetricamente, l’ampiezza di coloro che si sentono “classe operaia” oppure “popolare” è cresciuta di 3 punti negli ultimi tre anni e di 9 negli ultimi 5. Prima causa: lo slittamento dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti). Metà di essi oggi si posiziona nei ceti popolari. Lo stesso avviene per circa un terzo di impiegati e tecnici.

Una quota ampia di lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto di liberi professionisti (44%) oggi definisce la propria condizione di lavoro “precaria”.
La precarietà è  la cifra di una generazione senza futuro: il 63% del campione ritiene, infatti, che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei genitori. E il 56% ritiene che i giovani, per avere speranza di carriera, se ne debbano andare via. All’estero.

E gli altri ingredienti di un “senso” comune che divide anziché unire sono l’incertezza dunque, l’inquietudine che agita anche gli abbienti, la percezione di un futuro inteso come minaccia anziché come aspettativa, una specie di disillusione generalizzata che dà adito al rancore risentito che accomuna chi teme di perdere privilegi, chi vi aspira senza speranza, chi considera un bene irraggiungibile la mediocre stabilità, chi non ne ha mai conosciuto le fattezze e chi l’ha persa irrimediabilmente.

Mezza Italia, dice Diamanti, si sente operaia. Temo si senta sottoproletaria, espropriata dei valori e dei diritti del lavoro che erano un bene rinnovabile della classe operaia che li aveva conquistati e li tutelava. Perseguitata da una sensazione di inadeguatezza anche rispetto alle proprie aspettative di affrancamento, oscillante tra paura e rancore, precipitata nell’abiso del fallimento personale e di “ceto”.

L’altra mezza è altrettanto  travagliata, orfana di antiche culture del lavoro, corrotta dal culto repentino dell’individualismo proprietario e disillusa nelle aspettative di accumulazione perpetua e di consumi edonistici. Si tratta di figure sociali che non hanno interiorizzato la consapevolezza della perdita di privilegi e non appartiene ancora al mondo dei vinti, ma risente del “declassamento”.

Tutte e due queste Italie, vivono una inerte e afasica serialità: guadagnare sempre meno, spendere sempre di più – gli indebitati che si arrabattano per pagare mutui e rate – pretendere l’inarrivabile, non più riscattati da nessun orizzonte extra economico, valore o promessa che fosse, orgogliosa o messianica attesa di un mondo nuovo da costruire, senza una casa comune in cui elaborare la salvaguardia dei propri interessi in forma di passioni condivise e solidali, anzi sospinti verso una deriva di ostilità, rancori e divisioni.

Quasi tutti dicono i sociologi, vivono questa condizione come una vergogna: vivono l’impoverimento economico  e morale come un vulnus ad un’immagine di decoro saldamente ancorata alla capacità di reddito e alla potenzialità di consumo.

La destra risponde ancora con una narrazione cinica per esercitare le sue retoriche  iperliberiste e  e deregolazioniste, per imporre soluzioni autoritarie e dirigiste, per circoscrivere i margini di responsabilità e dignità in spazi di manovra occupati da licenze rinnovabili all’illegalità e alla sopraffazione.

La sinistra per arretratezza culturale e scarso impegno programmatore, continua a considerare questa fase come un rito di passaggio temporaneo, nell’attesa fideistica che un cambio di governo compia il miracolo, che la crisi passi e con la crisi passi ‘a nuttata.

Ci spetta impedire che la nostra ira sociale si trasformi in rancore, che invece prenda le vesti di una sacrosanta e legittima collera, per riprenderci la politica quella della rabbia, dei diritti, del riscatto, dei beni comuni, dell’interesse generale. Ricominciando con i modi che da sempre la democrazia anche incompiuta anche minacciata ci offre ancora, protestando, informandoci, scendendo in piazza. E votando.


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