“E l’editore disse la poesia è finita” titola l’Avvenire, spiegando come i principali marchi editoriali italiani abbiano rinunciato alla pubblicazione di collane dedicate ai versi dei poeti.
Su Twitter, intanto, Einaudi fa sapere che la sua casa editrice è tra le pochissime che ancora persevera nella pubblicazioni di volumi di poesia, ma non può fare a meno di chiedersi “fino a quando?”
In un Paese in cui il 59% della popolazioe non legge nemmeno un libro all’anno, la notizia non è certo una sorpresa. Gli editori, che non hanno per missione il bene dell’umanità ma quella, legittima, di far soldi, ragionano così: la poesia non vende, la poesia si elimina. Come dare loro torto?
Prima ancora di domandarsi perché in Italia non si legge poesia, occorrerebbe chiedersi perché non si legge tout court. L’analisi, già trattata d sociologi e intellettuali ben più titolati della sottoscritta, riconduce a una molteplicità di fattori che caratterizzano la società attuale: diffusione della tecnologia che incentiva le comunicazioni istantanee e riduce la capacità di concentrazione, predominio delle immagini sulle parole, riduzione del prestigio del ruolo dello scrittore a favore di altre figure sociali considerate modelli (youtube insegna), preparazione scolastica poco efficace e via di questo passo.
In un panorama tanto desolante è logico che la poesia sia la vittima designata: troppo difficile da assimilare in un mondo che funziona a colpi di 140 caratteri.Eppure, sui social ci sono persone che creano hashtag poetici a tutto spiano e pubblicano versi di Ungaretti, Pessoa, Alda Merini, come i ragazzini fanno con quelli del cantante più famoso del momento.
Serve a qualcosa questo continuo citare? Vista la moria delle collane di poesia è difficile essere ottimisti. I versi delle poesie famose in rete spesso soddisfano le esigenze di visibilità di una nicchia di persone in cerca della frase ad effetto, quella capace di generare la condivisione del tweet, parole spesso copiate da qualche sito trovato per caso. Belle da leggere, insomma, ma senza futuro.
L’unica speranza di salvare la bellezza del verso poetico e di tramandarne l’uso nel tempo viene dalla scuola. E negli ultimi quarant’anni non mi pare che sia stato fatto una grande lavoro in questo senso. Nelle aule italiane si recitano poesie a memoria in prima elementare per la festa della mamma, poi il vuoto. Ricordo spiegazioni annoiate e annotazioni a matita al margine di poesie che mi sono diventate care soltanto da adulta, quando ho potuto recitarle nel silenzio della mia stanza, amando il suono di ogni parola e comprendendone il significato profondo. Quanti, terminati gli studi, hanno avuto il desiderio e la fortuna di poterlo fare?
Abbiamo bisogno di una schiera di “professor Keating”, il Robin Williams de L’attimo fuggente, capaci non di salire in cattedra, ma di scendere in giardino con gli allievi e recitare loro versi che tocchino le corde sensibili del loro essere in formazione. La poesia è invenzione, bisogna inventarsi un modo per farla apprezzare e prima ancora occorre fornire ai giovani gli strumenti per comprenderla. Come possiamo pretendere che amino i versi se scrivere un tema senza errori nella propria lingua per molti è un’impresa impossibile?
Forse anche i poeti contemporanei, per sopravvivere devono cambiare. Può piacere o no, ma oggi il mondo viaggia a una velocità diversa dal passato. Si fatica ad arrivare in fondo a un post come questo (grazie a chi sta ancora leggendo), figuriamoci a un poema.Le parole sono frecce, non più gocce che cadono lentamente nell’anima. Fossi un poeta scriverei versi fulminei, capaci di lasciare il segno prima che il lettore metta un segno alla pagina, per continuare un’altra volta, volta che non arriverà mai.
Ci sono tweet, non citazioni, si badi bene, che sono pura poesia e forse chi li scrive non lo sa. Si vedono parole di rara bellezza in rete, abbandonate al loro destino fatto di pochi retweet, mentre quelle triviali invadono ogni spazio.
Se ci vergogniamo della poesia, lasciamo il mondo in mano ai cinici. E non è una bella cosa.
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