di Cristiano Abbadessa
Primo atto. Giovedì scorso, di mattina, rivedo una vecchia amica, con cui ero tornato in contatto un po’ più di un anno fa perché il marito intendeva sottoporci un suo libro. Non gli avevamo proposto un contratto, un po’ perché lo scritto era davvero agli estremi confini della nostra linea editoriale, un po’ perché si trattava di un’opera monumentale, di quelle che richiedono uno sforzo redazionale notevole, una mole di lavoro impressionante e che comportano spese di produzione decisamente elevate; una di quelle opere, insomma, che un editore decide di pubblicare solo se ci crede fino in fondo, senza trascinarsi dietro dubbi di sorta. L’amica mi dice che il marito ha infine trovato un editore, e che il libro è di prossima uscita. Ne sono lieto e glielo dico, confermandole la natura dei nostri dubbi. Ma, siccome la circostanza in cui ci siamo ritrovati è dolorosa, il discorso cade e non ci penso su più di tanto.
Secondo atto. Sempre giovedì, ma nel tardo pomeriggio, partecipo alla presentazione milanese di Diecipercento e la Gran Signora dei tonti, della nostra Antonella Di Martino. Ambiente informale, molti dei presenti ormai si conoscono, la presentazione diventa occasione di una chiacchierata ad ampio respiro, in cui vengo coinvolto. Dopo aver spiegato i nostri criteri di scelta, mi viene chiesto se ci è capitato di pentirci di una bocciatura, di vedere un’opera da noi scartata avere successo dopo la pubblicazione con altro editore. Rispondo di getto che non mi risulta che titoli da noi scartati siano diventati dei bestseller da decine di migliaia di copie o dei casi editoriali; ma aggiungo subito che bisognerebbe però chiedere i dati di vendita a tanti piccoli editori, perché in effetti molti autori passati al nostro vaglio hanno poi pubblicato con altre case editrici: e sapere se hanno venduto nell’ordine delle migliaia di copie, o delle centinaia, o delle decine, fa una bella differenza.
Nei giorni a seguire torno a riflettere su una realtà cui avevo già accennato in uno dei miei primi interventi, ma senza approfondirla a dovere. Se prendo in mano l’elenco degli autori e delle opere cui abbiamo dedicato una minima attenzione, chiedendo il manoscritto e discutendo tra noi l’opportunità di proporre un contratto, mi rendo conto che moltissimi hanno poi pubblicato, nel giro di breve tempo, con altri editori. In alcuni casi siamo stati battuti sul tempo, altre volte abbiamo scartato l’opera perché non ci convinceva fino in fondo (magari più per temi e punto di vista che per qualità), ma riconoscendole una sostanziale dignità letteraria. Addirittura abbiamo visto pubblicare opere da noi scartate senza indugio, per totale incompatibilità temetica con la linea editoriale, nelle quali però avevamo intravisto il germe di uno stile non disprezzabile.
Insomma, se traccio un bilancio, vedo che quasi tutte le opere ottime, buone o discrete passate per la nostra redazione hanno infine trovato un editore. Ovviamente ciascun editore segue i propri parametri di scelta: c’è quello che cerca una qualità letteraria elevata e quello che si accontenta di uno scritto gradevole e leggibile; c’è chi insegue temi e generi alla moda e chi persegue invece una propria precisa linea editoriale; c’è chi cerca un prodotto già “maturo” nello stile e persino nella redazione e chi guarda soprattutto alle idee e ai contenuti, riservandosi di migliorare con l’autore la fluidità della narrazione; c’è chi vuole autori in grado di autopromuoversi o spendibili come “personaggi” e chi procede seguendo i propri canali distributivi, magari limitati ma collaudati e sicuri. Alla fine, in ogni caso, è piuttosto facile che un’opera di buon livello trovi il suo sbocco verso il mare magno del mercato.
Mi viene in mente che nel mondo editoriale sento spesso ripetere una frase fatta: ci sono ormai più scrittori che lettori. Frase pronunciata di solito dagli editori, in parte per lamentarsi della mole di proposte ricevute, ma soprattutto per spiegare che è più facile produrre libri che venderli. Visto che, però, tutto quel che è pubblicabile viene in effetti pubblicato (e magari non venduto), non sarà anche vero che ci sono più editori che scrittori?
Sono ovviamente due paradossi, ma neppure troppo. I lettori sono più degli scrittori, ma tutti i libri scritti e pubblicati superano di gran lunga la capacità di “consumo” dell’universo dei lettori. Allo stesso modo, ci sono più scrittori che editori, ma per costruire i propri cataloghi gli editori, nel loro insieme, devono davvero raschiare il barile della produzione letteraria degna di questo nome.
Se ripenso alla nostra breve storia, mi accorgo di quanto sia cambiato nel giro di soli due anni. Siamo partiti da una situazione in cui molti autori validi andavano ancora proponendo buoni libri scritti ormai da qualche anno, ma rifiutati dagli editori; l’editoria a pagamento era fenomeno relativamente nuovo, che appariva una soluzione plausibile anche ad autori con legittime aspirazioni, di fronte al silenzio degli editori “puri”; nel limbo dell’autopubblicazione (che ancora non poteva contare sulla versione ebook) giacevano dimenticate ottime opere, in attesa di essere scoperte e ripescate (cosa che abbiamo fatto). Oggi riceviamo solo proposte fresche di composizione, gli editori a pagamento sono percepiti come l’ultima spiaggia dei falliti che non si rassegnano, l’autopubblicazione è un’alternativa consapevole e non un deposito di ambizioni frustrate. Se prima l’offerta degli autori era largamente superiore alla domanda degli editori (da cui la nascita dell’editoria a pagamento, come ovvia risposta a un vasto mercato di aspiranti scrittori), oggi il contratto di edizione diventa il paritario punto di incontro di due desideri: la voglia degli scrittori di vedere pubblicata la propria opera e la necessità degli editori di dotarsi di un catalogo sufficientemente ampio.
Come editore, questo riequilibrio tra domanda e offerta, e perciò nei rapporti di forza (anche contrattuali) dovrebbe preoccuparmi. In realtà credo che la mutazione in atto porterà a un cambiamento nell’interpretazione dei ruoli, che uscirà dagli schemi tradizionali e offrirà nuove possibilità tanto agli autori quanto agli editori, purché entrambe le categorie sappiano cogliere i segnali di mutamento e le nuove opportunità. Nel frattempo, non posso fare a meno di registrare le immediate conseguenze, che credo abbiano a che fare con quanto scrivevo la scorsa settimana a proposito del tracollo qualitativo delle proposte ricevute nel nostro secondo anno. (Oppure, può essere che il livello delle proposte sia calato perché inizialmente molti buoni autori avevano guardato al nuovo editore sperando che potesse diventare un attore di medio calibro e non uno dei tanti piccoli editori specializzati. Il che non cambia la sostanza del problema, confermando semmai che i piccoli editori sono troppi e, in genere, non soddisfano le aspettative degli autori).
Dopo tanto riflettere, mi sorgono alcune domande, che volentieri propongo per un’auspicata discussione collettiva.
In primo luogo: anche gli autori hanno la mia stessa sensazione che gli editori sul mercato siano tanti e forse troppi? E, in caso affermativo, come si pongono di fronte a questa realtà: affinando i criteri di scelta o ipotizzando percorsi alternativi?
Seconda questione. Fino a poco tempo fa, riuscire a suscitare l’interesse di un editore significava veder valutata in modo positivo la propria opera: di fronte alla sovrabbondanza dell’offerta autoriale, il riscontro del giudizio dell’editore era un certificato di qualità, a prescindere dalla conclusione di un accordo. Non hanno anche gli autori la sensazione che, ora, la presenza di molti (troppi) editori finisca per portare sul mercato anche opere appena dignitose, facendo venire meno quell’opera di selezione che un tempo era un primo credibile metro di valutazione del proprio lavoro?
E infine. Se oggi è più facile pubblicare, questo significa che aumenta ulteriormente la produzione libraria, in un mercato già soffocato e in cui l’offerta supera la domanda dei lettori. Considerando che la visibilità di un piccolo editore è comunque limitata, ogni singolo titolo pubblicato vede perciò ridursi fortemente, di fronte a una concorrenza sterminata, le possibilità non dico di “sfondare”, ma anche solo di ripagarsi. Al di là della soddisfazione di “essere pubblicati”, vale davvero la pena di fare tanti sforzi per trasformare semplicemente la propria forma di invisibilità? Ovvero, vale davvero la pena di entrare nel mercato editoriale per far leggere la propria opera a parenti, amici e conoscenti?