Se il Cremlino torna

Creato il 21 marzo 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

di Valerio Pierantozzi

Vladimir Putin ha vinto le elezioni presidenziali russe del 4 marzo 1012. Anzi, le ha stravinte, con il 63,64% dei voti, tornando per la terza volta al Cremlino, questa volta per sei anni, dopo i due precedenti mandati di quattro anni del 2000 e del 2004. Subito, come cani di Pavlov, gli Stati Uniti e i suoi accoliti hanno gridato ai brogli elettorali e alla repressione che il governo russo attuerebbe sulle opposizioni e sulla mancanza di un vero sistema democratico.

Il problema in realtà non sembra essere la presunta mancanza di democrazia – cui il cosiddetto “occidente” dedica attenzione solo a fasi alterne e solo verso alcuni Paesi (chissà perché nessuno parla mai della dittatura, che so, del Ciad) – ma è tutto politico.

Putin si oppone a quasi tutte le iniziative americane di politica estera ed economica (ma non solo). Se per esempio il suo predecessore Dimitri Medvedev aveva lasciato fare un po’ troppo facilmente la guerra alla Libia, Putin ha chiarito che un intervento in Siria o in Iran da parte di forze straniere sarebbe considerato come una minaccia alla Russia stessa.

L’America e i suoi alleati scodinzolanti sono furenti per essersi trovati questo enorme bastone fra le ruote dei loro programmi. A dirla tutta, agli Usa danno fastidio tutti quegli Stati che non accettano supinamente le decisioni che arrivano da Washington ma pretendono (guarda un po’!) di avere piena autonomia politica.

Putin ha chiarito il suo programma per il futuro del Paese in una serie di articoli apparsi su giornali russi. Nell’ultimo di questi, pubblicato il 20 febbraio sulla Moskovskiye Novosti, Putin ha dichiarato: “Noi sosterremo sempre i nostri interessi e obiettivi, e non prenderemo mai decisioni dettate da qualcun altro. La Russia ha quasi sempre avuto il privilegio di condurre una politica estera indipendente. E questo accadrà anche in futuro”.

Dichiarando di voler lavorare per la sicurezza degli Stati e per la pace globale, scoraggiando “l’uso eccessivo” della forza, lo “zar” parla anche della cosiddetta primavera araba. Sottolineando che la Russia “chiamerà sempre le cose con il loro nome, apertamente”, Putin nota come gli interventi esterni non abbiano mai portato a niente di buono, contribuendo a una evoluzione negativa della situazione fomentando omicidi e guerre civili. Il tutto culminato “dallo spettacolo ripugnante del barbaro linciaggio di Muammar Gheddafi”. [...] “Bisogna impedire che si ripeta lo scenario libico in Siria”, dice Putin.

Inoltre “la Russia è preoccupata per la crescente minaccia di lanciare un’operazione militare contro l’Iran. Se ciò accadesse, le conseguenze sarebbero veramente disastrose [...]. Sono convinto che questo problema dovrebbe essere risolto solo con mezzi pacifici”.

Il neo presidente russo, in un’altra occasione, ha detto senza mezzi termini di “sospettare” che “con la scusa di prevenire la creazione di armi di distruzione di massa” da parte dell’Iran, “si cerchi in realtà qualcosa di ben diverso: un cambio di regime”.

Come farsi rispettare? Putin lo ha capito benissimo: con la forza. In un articolo comparso sempre il 20 febbraio ma sulla Rossiyskaya Gazeta, afferma: “Ovviamente, non saremo capaci di rafforzare la nostra posizione internazionale, sviluppare la nostra economia e le nostre istituzioni democratiche se non saremo capaci di proteggerci”. Per questo si sta lavorando per aumentare e migliorare la forza militare russa.


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