Magazine Lavoro

Se il licenziato è un immigrato

Da Brunougolini

Se il licenziato è un immigratoSono quelli che più soffrono le conseguenze della crisi. Sono un esercito di donne e uomini che vivono tra noi e che rappresentano, tanto per adeguarsi agli imperativi dell’economia, il 12 per cento del nostro Prodotto interno lordo. Ovvero ci aiutano a sopravvivere. È stato dedicato a costoro un volume che è, a dire il vero, un «dossier»: «Immigrazione e sindacato, Lavoro, cittadinanza e rappresentanza» (Ediesse). Il tutto curato da Francesca Carrera ed Emanuele Galossi (con introduzione di Vera Lamonica).
I protagonisti sono una parte di quel miliardo di persone che hanno abbandonato i rispettivi Paesi di origine per cercare lavoro altrove. Sono i componenti di un esodo di massa continuo, come testimoniano le agghiaccianti sequenze dei barconi inabissati nei nostri mari. Un esercito, come sottolinea Fulvio Fammoni nella prefazione, che ha scelto la via della migrazione per migliorare le proprie condizioni di vita.
I numerosi saggi raccolti testimoniano gli effetti della crisi. Gli immigrati in Italia son quelli che più hanno perso lavoro con un tasso di disoccupazione cresciuto (dal 2008 al 2012) del 6,1 per i lavoratori comunitari e del 5,1 per i non comunitari. Mentre per gli italiani la crescita è stata del 3,6. Anche i salari hanno subito un colpo. È di 344 euro (il 26,2%) il taglio (denunciato nel primo semestre del 2012) della retribuzione media di un lavoratore immigrato rispetto a quella di un dipendente italiano. Inoltre la possibilità di poter accedere a forza lavoro a basso costo ha incentivato la concorrenza sleale tra le imprese, nonché l’evasione fiscale e contributiva. Così «le imprese virtuose hanno pagato più duramente la crisi e il sistema produttivo rischia di perdere il tessuto imprenditoriale più sano e innovativo». Un danno per il Paese, insomma.
Uno sguardo particolare viene in un’inchiesta, contenuta nel libro, gestita dall’associazione Bruno Trentin e curata da Emanuele Galossi. I 1065 questionari raccolti parlano di una dequalificazione di gran parte di questi lavoratori in gran parte laureati e con una forte presenza di donne. Alla domanda sulla priorità che l’imprenditore assegna loro pongono al primo posto la disponibilità alla flessibilità, al secondo l’essere pagati poco, al terzo la fatica e solo alla fine l’apprezzamento per «il merito». Come si vede le tante dissertazioni sul merito evaporano come neve al sole. Eppure queste donne e questi uomini rivendicano (il 65%) «esigenze formative». Solo il 13% può per questo contare sull’azienda. Molti poi (il 46%) ora rischia di cadere tra gli irregolari. E a proposito dei danni subiti dalla crisi mettono al primo posto le retribuzioni, poi la diminuzione delle giornate di lavoro. Mentre le condizioni di lavoro si fanno più rischiose (19,1%), gli orari più lunghi (22,2%), i diritti si vanno perdendo (12,8%), i consumi si riducono (62,3%), aumenta la ricerca di un prestito (14%). E così proseguendo, diventa difficile inviare le rimesse ai familiari nei paesi d’origine, vengono meno i ricongiungimenti… Tanto che alla fine il 45,6% degli intervistati pensa di dover affrontare una nuova migrazione.
C’è in questo mare di «sofferenti» quello ancor più grave dei nuovi schiavi ovvero del «lavoro gravemente sfruttato». Come spiega Francesco Carchedi in un’apposita classifica di queste forme di lavoro subito dietro la Romania (42,49) viene l’Italia (con il 22%9), poi l’Olanda (l’8,7%) e il Belgio (6,7%). Scrive Carchedi: «Le basse paghe, le truffe di cui gli immigrati sono vittime, il non pagamento di straordinari o di retribuzioni arretrate, le minacce e le violenze che subiscono in caso di richiesta del dovuto, formano, nell’insieme, ciò che s’intende per lavoro paraschiavistico».
C’è chi si oppone, organizza interventi ed è il sindacato. Un altro saggio parla di risultati nella contrattazione aziendale e propone la costruzione di uno «spazio d’immigrazione» nelle sedi sindacali. Altre esperienze si notano nel campo della contrattazione sociale ma occorre fare molto di più. Sono necessari, sottolinea Piero Soldini, «atti concreti e di discontinuità con il passato». Un incitamento che riguarda anche il sindacato Europeo. Come scrive Fausto Durante, «i decisori europei continuano a oscillare tra proclami inconcludenti e azioni altrettanto prive di efficacia». Tra le proposte al sindacato europeo quella di «un network di punti di contatto tra tutti i sindacati affiliati». Un dossier utile, a conclusione, fatto di denunce e suggerimenti. Può servire a chi non vuol limitarsi a partecipare a tavole rotonde.

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog