Insomma, nell'epoca del turismo di massa, del già visto in (quasi) ogni angolo del mondo, dei non-luoghi uguali ovunque, cosa si può attendere chi alla parola viaggio dà ancora un significato non banale?
Bella domanda, e se volete, una domanda a sua volta già logorata dall'uso. Già Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici parlava di fine dei viaggi. Era il 1955 e da allora si sono sprecate le orazioni funebri sull'eclissi della meraviglia che si accompagna agli spostamenti nel mondo, sull'esaurimento di ogni autentica pulsione all'esplorazione, sull'invadenza del già noto, come si legge in un bellissimo saggio di Luigi Marfé uscito per l'editore Olschki.
Possibile, possibile che il pianeta sia diventato così piccolo? Possibile che si siano consumate tutte le parole? Il mondo è diventato davvero un deserto di noia?
O queste domande sono solo fame di nuovi stimoli che ci rimetteranno ancora in movimento, regalandoci altre mete e soprattutto altre possibilità di racconto?
Non so se viaggiare sia ancora un'arte, come affermavano viaggiatori di altri tempi (del resto si diceva anche della politica e guardate come siamo ridotti). So che dipende da noi, raggiungere o meno l'altrove.