Si chiama «gray divorce», divorzio tardivo, ed è il fenomeno del momento. O almeno così pare, dal momento che una testata prestigiosa come New York Times ha pensato bene di metterlo in luce dedicandogli un apposito spazio sulle pagine Weddings and Vows, fino a ieri destinate esclusivamente a fidanzamenti, matrimoni ed unioni civili. Alla base della scelta della testata newyorkese, una realtà ancora poco diffusa in Europa ma ben presente negli States, vale a dire quella del naufragio di matrimoni che sembravano solidi eppure dopo anni, in qualche caso dopo decennio, hanno ceduto. Il successo del «gray divorce» – che è statisticamente in aumento – parrebbe determinato da una molteplicità di fattori che vanno da una maggiore durata della vita alla difficoltà di far combaciare aspettative generazionali sul matrimonio fino alla volontà di auto-affermazione.
A prescindere dall’entità del fenomeno, non si può fare a meno di registrare come l’iniziativa del New York Times, benché discutibile, sia perfettamente in linea con un certo modo di guardare al matrimonio. Solo un ingenuo, infatti, può non aver notato la tendenza culturale a gettare fango sull’istituto matrimoniale e a descrivere sistematicamente la famiglia “tradizionale” ora come noiosa ora come violenta. Fateci caso: ormai non si dà più spazio, sul piano mediatico, alle storie che durano tutta la vita. Da noi c’è stata quella degli attori Raimondo Vianello (1922-2010) e Sandra Mondaini (1931-2010), con lei che morì cinque mesi dopo di lui dopo oltre mezzo secolo insieme, ma è da considerarsi a tutti gli effetti un’eccezione. Perché i riflettori, come conferma la scelta del New York Times, oggi sono tutti per il divorzio o per le nozze gay o per le scappatelle o per il fidanzamento “vip” della velina Y che, coincidenza, ha perso la testa per il calciatore X.
Si racconta ogni storia, insomma, fuorché quella degli innamorati che onorano per tutta la vita la promessa che, insieme agli anelli, si sono scambiati il giorno del loro matrimonio; si pubblicizza l’effimero nascondendo l’eterno, ciò che passa a scapito di quello che, nonostante tutto, miracolosamente dura. Eppure – come ha dimostrato per esempio lo straordinario e recente successo di “Un matrimonio”, serie tv firmata da Pupi Avanti e seguita da 5 milioni di Italiani – nelle persone comuni, che magari non leggono il New York Times ma coi loro sforzi quotidiani contribuiscono a mandare avanti il mondo, alberga ancora un desiderio che sa di nostalgia. E non è certo curiosità per i dettagli di questo o quel divorzio; no, è altro. Tutt’altro. E’ nostalgia dell’infinito, di quel gigantesco «per sempre» che per esempio i nostri nonni, pur con le difficoltà che possiamo immaginare, sapevano rinnovare uno all’altro fino alla morte.
Ragion per cui, se da un lato assistiamo alla corsa – dalla quale l’Italia non è stata purtroppo risparmiata – ad introdurre nelle legislazioni il cosiddetto “divorzio breve” e, dall’altro prevale la volontà di dare spazio a fenomeni come il «gray divorce», possiamo stare certi che, prima o poi, sarà la cara vecchia famiglia a spuntarla; ammaccata e magari ancora sommersa da pregiudizi, ma tornerà. E verrà un giorno, magari in un futuro meno lontano di quanto si potrebbe pensare oggi, nel quale anche sulle colonne del New York Times si celebreranno i giovani che ce l’hanno fatta. Che alla tentazione di saltare sulla prima scialuppa disponibile hanno anteposto il desiderio di riparare la nave del loro matrimonio, anziché lasciarla affondare come hanno fatto altri. Che si sono amati tutta la vita, rimanendo così, per l’appunto, giovani. Per i sommi sacerdoti del politically correct, che hanno reso la parola fedeltà quasi una bestemmia, sarà un brutto giorno. Per tutti gli altri invece, una gran festa.