Magazine Società
Se introduci un po' di anarchia... se stravolgi l'ordine prestabilito... tutto diventa improvvisamente caos. Sono un agente del caos. E sai qual è il bello del caos? È equo! (Il cavaliere oscuro)
Creato il 17 maggio 2012 da GiannaUna delle cose che maggiormente viene contestata agli anarchici è quella della possibilità dell’autogestione. Soprattutto adesso, soprattutto rispetto all’"evoluzione" (???) che c’è stata nei meccanismi della società, troppo complicati per essere compresi dalla maggior parte delle persone e troppo difficili da gestire da chi non è “pratico”. Si pensa subito al famoso “caos” di una situazione totalmente assente di direttive e ruoli prestabiliti. Eppure fatti di questo tipo accadono continuamente nella vita reale: in determinate circostanze storiche (crisi economiche e finanziarie, crollo di regimi dittatoriali, guerre civili, processi di decolonizzazione, fasi successive a catastrofi naturali come i terremoti) ecco che il popolo si sveglia dal torpore e “scopre” l’autogestione, si riprende le fabbriche, i servizi, le scuole, le campagne. L’energia finalmente liberata s’impadronisce della realtà. Il metodo autogestionario può assumere anche un carattere rivoluzionario, soprattutto quando effettivamente il popolo si rende conto che può osare di più, ed è in grado di prendere parte al grande sogno della rivoluzione – come è accaduto nella Spagna del 1936 – autogestendo ogni ambito lavorativo e di vita: dalla grande industria all’agricoltura, dai servizi fino ai più piccoli esercizi commerciali, nei paesi, nei villaggi e nelle città. In Argentina, nei primi anni di questo secolo, dopo che i proprietari erano fuggiti all’estero con il denaro per paura delle conseguenze dell’incombente crisi finanziaria, abbiamo assistito all’autogestione delle fabbriche: i diretti interessati hanno lavorato anche in assenza dei vecchi padroni senza mettere in discussione l’autorità costituita. L’autogestione può avere infatti varie caratteristiche, può essere limitata ad un ambito, come per esempio l’educazione scolastica, ma, in campo economico, può accadere che sia addirittura emanazione di uno Stato, com’è accaduto nella ormai estinta Jugoslavia durante la seconda metà del Novecento. Qui i lavoratori si autogestivano la produzione, decidevano autonomamente le varie fasi, i salari, i ritmi, ma all’interno di una pianificazione calata dall’alto. Nel caso jugoslavo si può senz’altro dire che in definitiva gli operai autogestivano il loro sfruttamento. Solo quando è parte integrante di un progetto antigerarchico l’autogestione diviene incompatibile con il sistema autoritario, capitalistico e statale; solamente in questo caso riproduce al suo interno tale incompatibilità, favorendo cioè la piena autonomia individuale, senza gerarchie o ruoli prestabiliti che diano accesso a privilegi. La libertà di tutti i soggetti che fanno parte del progetto convive con la responsabilità individuale, con la rotazione dei ruoli, l’equa distribuzione del sapere e dei beni di prima necessità, l’abolizione della proprietà privata... Non vi può essere infatti possesso individuale dei beni primari, come la terra, le materie prime, gli strumenti e le macchine, di cui la comunità fa uso: appartengono a tutti, perciò a nessuno; sono in prestito da chi ci ha preceduti e vanno in dote a chi ci seguirà. Faccio un esempio che si inserisce meglio nella quotidianità: supponiamo che un gruppo di amici decida di comprare un casolare abbandonato e di rimetterlo in piedi per trascorrervi le vacanze. Ognuno mette in campo le proprie competenze in materia, tutti partecipano alle spese e tutti egualmente si spartiscono il lavoro senza che si sviluppino posizioni privilegiate. E se qualcuno ha meno possibilità di contribuire economicamente rispetto ad altri, prenderà parte lo stesso al progetto senza per questo venire penalizzato. Iniziano i lavori: l’autorità (per usare un termine che dovrebbe sempre fare rizzare i capelli) del falegname, o l’autorità del muratore non danno diritto a questi di assumere posizioni gerarchiche, di comando, ma, se riconosciute dagli altri, sono solo ed esclusivamente il frutto della loro esperienza, e come tale rappresentano la loro autorevolezza in una materia. Ciò definisce il contributo che daranno allo sviluppo dell’opera ma non gli concede in cambio ritorni dal punto di vista materiale, tipo particolari privilegi. Se saranno stati bravi la loro autorevolezza verrà confermata o accresciuta, verranno gratificati per questo, ma dal punto di vista del compenso finale esso sarà uguale a quello di tutti gli altri: la fruibilità di quel luogo che hanno contribuito a ristrutturare per poterci trascorrere le vacanze. La bravura di una persona non deve essere motivo di gratificazioni economiche. È vero, e non c’è alcun dubbio che la capacità professionale di un individuo è il frutto dei suoi studi, del suo impegno, ma è altrettanto vero che essa è il prodotto di una società che gli ha permesso, con le sue strutture scolastiche, con gli insegnanti, con i libri e con il sapere che gli ha trasmesso, di divenire capace di fare determinate cose; una società che ha dedicato risorse, energie, tempo, spazio alla sua formazione. Il suo impegno senza tutto ciò non sarebbe stato sufficiente a farne quello che è diventato; viceversa la cura della società non sarebbe bastata senza i suoi sforzi personali. In quanto ai meriti, partiamo da un fatto: ciascun individuo si dedica a qualcosa. Mentre qualcuno si applica nello studio, tanti altri individui lavorano, producono, si impegnano in attività diverse ma altrettanto importanti. Se lui, per fare alcuni esempi, mangia, si veste, viaggia, legge, è perché altre decine di individui coltivano i prodotti che consuma, tessono e cuciono i vestiti che indossa, costruiscono, guidano i veicoli che lo trasportano, scrivono, stampano, rilegano i libri su cui studia... E così via. Dietro il merito di uno c’è il merito di tutti, questo è il senso di una comunità, di una società. Ora, il fatto che egli abbia raggiunto un certo grado di professionalità e sia entrato nel mondo del lavoro non può rappresentare un fattore di distacco da questo contesto, semmai è il momento in cui egli comincia a restituire parte di quanto ha ricevuto sotto i più svariati aspetti. È difficile dire che il pastore che accudisce le sue pecore per ricavarne latte e lana svolga una professione meno importante del professore che pure beve latte e indossa maglioni di lana, o che il lavoro dell’artigiano costruttore di borse sia meno dignitoso e meritevole dell’attività dello studente che riempie una di quelle borse coi libri sui quali studia. È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, mediante la cooperazione volontaria, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo con la persuasione, l’esempio e il vantaggio reciproco che può trionfare una società di persone liberamente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili. L’origine prima dei mali che hanno travagliato e travagliano l’umanità, a parte s’intende quelli che dipendono dalle forze avverse della natura, è il fatto che gli uomini non hanno compreso, o hanno smesso di comprendere, che l’accordo e la cooperazione è l’unico e solo mezzo per assicurare a tutti il massimo bene possibile. I più forti e più furbi hanno voluto sottomettere e sfruttare gli altri, e quando sono riusciti a conquistare una posizione vantaggiosa hanno voluto assicurarsene e perpetuarne il possesso creando in loro difesa ogni specie di organi permanenti di coercizione.
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"Aspetterò domani, dopodomani e magari cent'anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie". Fabrizio De André
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