SE L’ARTISTA È MARGINALE
L’arte espansa / Un saggio di Mario Perniola (Einaudi, 2015)
di Massimiliano Sardina

L’antropocene è la civiltà dell’immagine (sempre meno cartacea e sempre più digitalizzata), un nuovo Medioevo che utilizza il medium iconico per parlare alle masse dei nuovi illetterati. Oggi, com’è noto, più di una persona su due cammina con un iphone in mano, ossia un computerino che, oltre alla funzione telefonica, è in grado di produrre fotografie e filmati ad altissima risoluzione; tutti sono produttori di immagini, dalla casalinga di Voghera al professionista di turno, e infatti di click giornalieri nel mondo se ne stimano a miliardi. L’immagine dopo cancella l’immagine prima: una damnatio memoriae a getto continuo. L’ipericonicità ha generato (in chi osserva ma anche in chi produce) indifferenza e distrazione, una pigrizia cronica capace di ridestarsi solo al cospetto di immagini shock, ed ecco spiegato il successo di tanta arte contemporanea che utilizza un linguaggio visivo estremo e disturbante. Per farsi notare, per ritagliarsi dallo sfondo e arrogarsi l’occhio di bue, tanta arte ricorre ai belletti vistosi della puttana di strada, ma va da sé che, pagata la consumazione, svanito anche il trucco. Certo è che da quest’overdose non se ne esce. In un modo o nell’altro chi lavora e si esprime nelle arti visive deve tener conto delle mutate condizioni sottese alle dinamiche di ricezione delle immagini, e mai come in questi anni il confine tra autore e destinatario dell’opera si è fatto elastico e nomade.

Improntare una disamina attendibile e obiettiva sulle più recenti propaggini dell’arte contemporanea è davvero problematico (salvo accontentarsi di approssimazioni), tanto è pluriverso, disomogeneo e multidisciplinare il campo d’indagine all’interno del quale si trovano a operare, sempre più stretti l’uno all’altro, l’artista e il critico (ossia l’opera e quel corredo teorico che la spiega, la sostiene, la giustifica e la promuove). L’arte si è espansa, ha rotto il recinto della cornice, si è divincolata dal chiodo ed è saltata giù dalla parete. È uscita dagli ateliers, dalle gallerie e dai musei, si è gettata ovunque e su chiunque, allargandosi e penetrando in ogni anfratto del sociale. Una libertà pagata a caro prezzo. Deposta la tela, la tavolozza e tutti gli strumenti tradizionali del mestiere l’artista si è lanciato a capofitto nel vortice della sperimentazione, dando per buona e percorribile ogni strada e ogni scorciatoia, forte della convinzione (sempre più universalmente accettata) che tutto può assurgere a opera d’arte. La prima spallata antiaccademica l’ha data il Romanticismo, ma lo sfondamento vero e proprio è stato attuato dalle Avanguardie storiche del primo Novecento (tutte, nessuna esclusa), fino al punto di non ritorno della Pop Art, che ha celebrato l’inscindibile tautologico sodalizio tra artista e società. Crollato il monopolio istituzionale l’arte si fa “discorso sull’arte”, spingendosi fino ai territori aniconici e iconoclastici dell’anti-arte e della non-arte.

Il punto di rottura, come dicevamo, va ricercato in età romantica, in certi atteggiamenti e in certe aspirazioni. «La svolta culturale romantica – scrive Perniola – va in una direzione assolutamente differente rispetto a quella rinascimentale: essa non focalizza la propria attenzione sul possesso di un sapere (come nel caso dell’arte di Leonardo) ma sull’irruenza dell’azione.» Il primato dell’azione sul prodotto (l’opera propriamente detta) sarà portato alle estreme conseguenze dalle Avanguardie del primo Novecento. Il processo di smaterializzazione dell’opera d’arte si compirà a più riprese negli ultimi tre decenni del Novecento (si pensi alle varie declinazioni della performing-art, alle installazioni interattive, alla videoarte…). La dissacrazione duchampiana dell’oggetto culmina nella sparizione dell’oggetto (e dell’arte stessa). Nel corso del ‘900 – con una forte accelerazione innescata dalle neo-Avanguardie post-Pop – tutta l’arte (con ciò che le gravita intorno) subisce una tormentata e incompiuta riformulazione. Se nella prima fase rivoluzionaria gli artisti riuniti in gruppi (correnti o movimenti) si sono appoggiati ai Manifesti (Cubismo, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo…), successivamente sono subentrati singoli e specifici apparati critici a sostegno di altrettanto singoli e specifici operati artistici; accanto all’opera – più o meno smaterializzata, più o meno mercificabile e musealizzabile – si rende necessaria la presenza di un manuale che la spieghi e che la giustifichi: artista e critico vanno a braccetto (se scompare uno scompare anche l’altro). Il dopo-Warhol è un meraviglioso caos. Il boom detonante del benessere diffuso livella i ceti sociali in una più elastica classe media, un processo di democratizzazione che investe ogni ansa del sociale.

A mutare profondamente, in seno ai rivolgimenti sociali tra anni ’50 e ’60, è lo statuto stesso di artista, la sua designazione e la sua investitura che non necessitano più del benestare di una qualche istituzione accademica o politica. Ciascuno può sentirsi artista e proporsi come tale. A mutare, di riflesso, sono anche i mediatori tradizionali e i loro filtri selettivi. La famosa Saatchi Gallery di Londra fu tra le prime a intercettare questa grande rivoluzione e a promuovere certe tendenze dominanti negli anni ’90 come il Post Human, l’Abject Art, lo Psycotic Realism, l’Art Cyberpunk…; nel 2006 la Saatchi Gallery si è espansa online, lanciando decine di migliaia di nuovi artisti (o aspiranti tali), rompendo quei sacri confini assegnati dalla tradizione. Un’operazione coraggiosa e al contempo irresponsabile, poi mitigata nel 2012 con l’aggiunta di uno sbarramento selettivo. Va da sé che non è solo una questione di numeri. Ben venga la democratizzazione, ben venga un’intera umanità che si scopre detentrice di una qualche forma di creatività, ben vengano le platee che si riversano sui palcoscenici, ma fino a che punto si tratti di “arte” in senso stretto è davvero arduo stabilire. «Lo statuto di “artista” – scrive Perniola – si basa su una auto designazione esplicita, una specie di “divinizzazione” della propria personalità. In altre parole, io sono artista non perché una o più persone qualificate in questo campo mi giudicano tale, ma perché mi autonomino in questo modo.» Nell’era dei social network tutti promozionano se stessi, l’artista col suo quadro, lo scrittore col suo libro e via così, in un accumulo compulsivo di I like che più è gonfio e più è effimero.

L’autopromozione rompe l’ultimo steccato e dà il via a una compiaciuta (e poco redditizia) prostituzione. Solo una critica colta, attenta e militante salva l’artista puro e autentico e fa luce sulla sua opera. Al resto ci pensa il Tribunale del Tempo, setaccio per eccellenza. La metastasi iconica (aniconica e iconoclastica) è sempre più galoppante, ingurgita e rigetta un’infinità di immagini, diseduca e confonde i fruitori, intasa la visione e genera un ingorgo che rende problematica l’interazione dialettica tra chi emette messaggi visivi e chi dovrebbe essere designato a riceverli ed elaborarli. L’arte si è espansa finanche nel medium, molto al di là degli strumenti e dei supporti canonici. Perniola parla di svolta fringe dell’arte contemporanea, riferendosi a tutto quel marginale che man mano è andato guadagnandosi una desinenza di “artisticità”. La Pop aveva indicato una direzione, ed è stata presa alla lettera: il confine tra arte e società si è tramutato in una sorta di bagnasciuga. Crollate le barriere, venuti meno i tradizionali punti di riferimento, la pratica dell’arte si è sconsideratamente allargata, slabbrandosi e insinuandosi nei campi più disparati. Tanto materiale marginale (debitamente rielaborato e ricontestualizzato, con l’immancabile corredo teorico giustificante in appendice) sale sul podio, s’accomoda nella cornice e penetra negli spazi espositivi. L’arte fringe si trova così a dividere la scena con l’arte non-fringe, percepibile a tratti come obsoleta o troppo centrale: lo smarrimento è inevitabile, ma è un percorso obbligato.

Portrait of MCA artist David Capra and his dog Teena. The Museum of Contemporary Art Australia celebrates the launch of artist David Capra’s playful and vibrant 2015 Bella Room Commission, which invites visitors to join in giving Teena the sausage dog a bath. May 25, 2015. Photo by Anna Kucera
Perniola chiama a esempio la Biennale di Venezia del 2013 curata da Massimiliano Gioni, intitolata significativamente “Il Palazzo Enciclopedico”, un’esposizione che senza mezzi termini definisce «destabilizzante». Ne “Il Palazzo Enciclopedico” c’è spazio per tutto e per tutti, in un’unica soluzione di continuità (ex-voto, pitture medianiche, oggetti vudù, studi botanici, documentari, libri d’artista, fumetti, Folk Art, collezioni…, e accanto a questo “marginale” anche artisti riconosciuti come Cindy Sherman, John De Andrea e Richard Serra). In questa visione populistica l’arte diventa appannaggio di tutti, quindi tutto potenzialmente può ammantarsi d’un’aura d’artisticità, tutto diventa “artisticamente interessante” purché adeguatamente veicolato dalle nuove strategie mediatrici. «L’opera d’arte – sintetizza Perniola – non è più sufficiente a se stessa. Le poetiche, cioè i programmi d’arte che hanno accompagnato l’arte contemporanea, non riescono più a colmare questa carenza; tantomeno la critica d’arte, ridotta a cronaca o a promozione pubblicitaria. Le strategie artistiche devono lasciare il posto alle strategie teoriche. Nel momento in cui tutto ciò che è fringe può diventare istituzionale, si apre il problema della sua legittimazione e dell’autorevolezza di chi garantisce tale operazione.» Un contraltare del “Palazzo Enciclopedico” di Gioni è la Biennale di Venezia del 2015 diretta da Okwui Enwezor, che alla svolta fringe oppone una sorta di ritorno all’ordine; per Enwezor l’artista deve essere una persona colta, calata in una ricerca pluriennale, con studi accademici alle spalle, nessuno spazio per gli autodidatti dell’ultima ora, anche se, come fa notare Perniola «il dilettantismo cacciato dalla porta rientra dalla finestra.» Biennali a parte, nello scorcio di quest’ultimo quindicennio è avvenuto un cambiamento epistemologico della nozione di arte, una trasformazione in fieri innescata da un’espansione pluridirezionale.

Alla domanda: chi è, cos’è e cosa fa un artista?, è sempre più controverso e problematico rispondere. Se da un lato la sociologia dell’arte indica che l’artista è colui che passa attraverso i canali cosiddetti ufficiali (la critica in primis, e poi a seguire le riviste del settore, le mostre, le gallerie, le aste, i musei, i collezionisti…), dall’altro non è ormai più possibile prescindere dalle alterazioni subite dal concetto stesso di “arte” quale categoria strettamente cognitiva. Certificare l’autenticità di un’opera, sostiene Perniola, è un’impresa sempre più complessa, dato che la sua solennizzazione (o artificazione) spesso cela interessi commerciali o cortesie amicali. Su cosa sia o non sia “arte”, su cosa possa o non possa rientrare nell’alveo del suo paradigma, su cosa abbia intrinseca legittimazione (al riparo da ogni fraintendimento) e su cosa debba necessariamente restare fuori, su ciò che è inside e ciò che è outside la questione sembra destinata a rimanere aperta; i cambiamenti intercorsi e quelli tuttora in atto eludono ogni carattere di definitività e non consentono una panoramica chiara. Al concetto di “arte” in questi ultimi decenni è stato assimilato, per dirla con un gioco linguistico, un po’ tutto e un po’ nulla. Si pensi alla polemica di Jean Dubuffet (teorizzatore, dal 1948, dell’Art Brut) contro l’arte professionalizzata e istituzionalizzata. All’arte come “atto deviante” vengono iscritte anche categorie non propriamente razionali, come la produzione artistica degli psicopatici o quella dei bambini, ma anche forme d’arte involontaria.

«Non esiste un “mondo dell’arte”, – conclude Perniola – ma molti mondi dell’arte che si sovrappongono e si influenzano reciprocamente.» A fare la differenza rispetto al passato sono i processi di solennizzazione (o “artistizzazione”, per usare un neologismo introdotto proprio da Perniola) che gonfiano “il mondo dell’arte” legittimandone sempre nuovi orizzonti. L’arte espansa mette a fuoco un’impietosa istantanea del “sistema arte”, con coraggiose zummate lungo i bordi dell’inquadratura. Ne emerge un ritratto sfuggente, composito, sovraccarico di dettagli sebbene visibilmente incompiuto. La riflessione sull’ipericonicità trascina con sé anche quella sull’iperproduttività: anche le opere d’arte, come tutte le altre merci della società dei consumi, sono risucchiate nel processo di fabbricazione e distruzione. Perniola fa il punto anche sulla vulnerabilità dell’arte di quest’ultimo secolo, prodotta con materiali sperimentali (acrilici, resine, plastiche, gomme, fibre sintetiche, tecniche miste…) altamente deperibili e adulterabili, opere problematiche sia sul piano della conservazione e musealizzazione sia su quello del restauro.
Massimiliano Sardina

Cover Amedit n. 25 – Dicembre 2015
“Célestine” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 25 – Dicembre 2015.
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