Conosciamo ormai tutti il vergognoso caso dell’imprenditore veneto che si è suicidato perché non riusciva più a pagare i propri fornitori, causa il mancato pagamento da parte della Pubblica Amministrazione del debito che questa aveva con la sua impresa. E non parliamo di bruscolini, ma di ben 250.000 euro. Una somma ingente, che, a parti invertite, avrebbe determinato un recupero coattivo che avrebbe fatto tracollare l’imprenditore, gli avrebbe fatto dichiarare fallimento e probabilmente lo avrebbe messo sul lastrico.
E invece nulla. Il normale cittadino o l’imprenditore non può nulla contro la morosità della pubblica amministrazione e contro le sue inefficienze burocratiche. Non esiste legge che obblighi realmente e concretamente la pubblica amministrazione a pagare in tempi umani, e non esiste giudice che sia disposto a emettere sentenze capaci di rendere giustizia a questi creditori privati. Lo Stato è sempre lo Stato: burocratico, inefficiente, sprecone e persino moroso. E lo Stato italiano è il peggiore di tutti.
Tanti sono i settori economici che vivono sul rapporto con la pubblicazione amministrazione, sui servizi che questi le offrono o che sono costretti a offrirle, perché magari lo Stato è l’unico loro cliente. E tutti soffrono di questa incredibile mancanza di rispetto nei confronti del lavoro privato che crea non poco noncumento alle loro attività economiche. Nel settore sanitario, per esempio, sono tanti i fornitori che non ricevono un euro dalle pubbliche amministrazioni ospedaliere e dalle ASL, eppur questo sono comunque costretti a offrire i loro servizi – spesso essenziali – sui quali anticipano capitali, erodendo la capacità di solvenza delle loro imprese. Perché è ovvio che se spendi e non incassi, inizi a navigare in brutte acque. E che dire della giustizia? Esiste quel sistema, simbolo di progresso, che si chiama gratuito patrocinio, eppure con il tempo è diventato gratuito non solo per il cliente che ne usufruisce, ma pure per lo Stato che lo dovrebbe pagare. Infatti, oggi è l’avvocato che paga (molto anticipatamente) le spese di assistenza legale, poiché lo Stato è insolvente anche in questo settore.
Il paradosso maggiore – o se vogliamo la più ingiusta delle ingiustizie – è che lo Stato insolvente poi pretende che queste imprese o questi professionisti siano puntuali nel fare i propri adempimenti fiscali. Guai a sgarrare di un giorno. La pappa per le pubbliche amministrazioni parassitarie e inefficienti, per i burocrati dai superstipendi, deve essere garantita, e il cittadino deve pagare e subito. Così se non paga, ecco che scattano le ganasce fiscali, i fermi amministrativi, e persino il reato di evasione fraudolenta del fisco. Insomma, il cittadino insolvente o inadempiente non ha scampo: lo Stato gli preleva i soldi in un modo o nell’altro. O non pagandogli il giusto lavoro che egli ha svolto per la pubblica amministrazione, oppure chiedendogli i tributi su quel lavoro svolto. È un paradosso. No? Lo Stato gli fa pagare le tasse sui soldi che gli deve e per i quali è moroso.
A conti fatti, se nel mondo esiste uno Stato meno amichevole nei confronti dell’iniziativa economica privata, questo è lo Stato italiano. È un dato di fatto ormai. Da noi, la libertà di impresa è solo un’enunciazione formale nella Costituzione che non trova in alcun modo concreta attuazione. Gli imprenditori italiani non sono il tessuto connettivo e vivo dell’economia nazionale, ma sono solo vacche che lo Stato taglieggiatore munge ogni qual volta ha bisogno di soldi per alimentare gli sprechi e i privilegi della pubblica amministrazione, della giustizia e della politica parassitaria. E sia mai che questi soldi servano davvero per garantire migliori servizi al cittadino. Spesso, si assiste a uno standard qualitativo molto più basso di quello presente in analoghe strutture private.
Ciò detto, se soluzione è possibile, questa è racchiusa in una direttiva europea che lo Stato italiano non ha ancora recepito: quella che stabilisce l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di pagare entro 30 giorni dall’emissione della fattura, con un possibile ritardo non superiore ai 60 giorni. È chiaro che in violazione della direttiva, sarà possibile ricorrere al giudice e attivare la procedura di recupero coattivo. Seppure, personalmente, la vedo comunque dura, perché non è solo un fattore di regole, ma è anche un fattore di burocrazia e in ultimo di mentalità. E in fatto di mentalità e burocrazia, la politica e la pubblica amministrazione italiana sono rimaste ferme al secolo scorso.
di Martino © 2011 Il Jester