Marco Galiazzo, uno dei tre Robin Hood italiani, non è riuscito a bissare il
successo nella gara individuale del tiro con l’arco. Era quasi scontato che
accadesse. L’alchimia del momento magico dei tre moschettieri – Marco Galiazzo
da Padova, Mauro Nespoli da Verona e Michele Frangilli da Gallarate – non è
riproducibile. Il tiro con l’arco, infatti, prima di essere una disciplina
sportiva è un’arte e prima di essere un’arte fu un’esigenza di caccia per la
sopravvivenza. Non a caso il tiro con l’arco fece la sua comparsa nei Giochi di
Parigi nel 1900 ma fu escluso dall’Olimpo dopo il 1920 per ritornare in Gara
solo nel 1972 a Monaco di Baviera. Nella medaglia d’oro conquistata dagli
italiani ai danni degli americani c’è senza dubbio la quintessenza della tecnica
del tiro con l’arco che – qui è il punto – non è soltanto tecnica. La perizia
tecnica, e anche la contemporanea tecnologia con le corde in carbonio targate
Ferrari, è senza dubbio necessaria ma non è sufficiente. C’è bisogno di qualcosa
in più o, forse, in meno, quel qualcosa che il perfetto accordo dell’arciere con
l’arco che mira al suo bersaglio come a se stesso. Nella sequenza della scena
dell’ultimo tiro di Michele Frangilli tutto questo appare con un certo nitore.
Quando va al suo posto per caricare, tirare e mollare la freccia, guarda
il tabellone elettronico che dà il punteggio: Usa – Italia 218 a 209. Può
vincere solo e soltanto se la freccia centra il 10. Con il 9, che pure è un
colpo sopraffino, si pareggia. Settanta sono i metri che dividono la punta della
freccia dell’arciere italiano dal bersaglio più piccolo e centrale. Il braccio e
la testa devono realizzare quell’armonia prestabilita che non è solo il frutto
della fantasia metafisica di Leibniz ma anche l’unico modo possibile perché
l’arco sia teso al meglio e la freccia sia scagliata come se fosse un prodotto
della natura che va nel suo luogo naturale. Michele ha in sostegno dei suoi
amici e compagni di squadra ma ora lì è solo. Tende l’arco e scocca la freccia:
10. Il primo a esultare, dimenticando per un attimo la calma e serenità del
saggio, è Dong Eun Suk, l’allenatore sudcoreano degli italiani. Ora lasciamo la
cronaca olimpica e apriamo un libretto che uscì in Europa nel 1948: Lo Zen e il
tiro con l’arco di Eugen Herrigel. Nell’introduzione di Daisetz T. Suzuki si
apprende che uno degli elementi essenziali nell’esercizio del tiro con l’arco e
delle altre arti che vengono praticate in Giappone e probabilmente anche in
altri paesi dell’Estremo Oriente è il fatto che non perseguono alcun fine
pratico – anche se dalla pratica della caccia sono nate quasi tutte – e neppure
si propongono un piacere puramente estetico, ma rappresentano un tirocinio della
coscienza e devono servire ad avvicinarla alla realtà ultima. Così il tiro con
l’arco non viene esercitato soltanto per colpire il bersaglio, la spada non
s’impugna per abbattere l’avversario, il danzatore non danza soltanto per
eseguire certi movimenti ritmici del corpo, ma anzitutto perché la coscienza si
accordi armoniosamente all’inconscio. È proprio questo il motivo che fa del tiro
con l’arco uno sport molto particolare che è soprattutto una disciplina sportiva
nel senso più originario della definizione: una forma di auto-disciplina in cui
il bersaglio solo apparentemente è esterno alla freccia. In questa perfezione
tecnica che supera se stessa per trasformarsi in un altro ordine di cose e di
idee c’è l’arte del tiro con l’arco. Non so se tutto questo c’era anche al
momento del tiro con l’arco di Michele Frangilli, certo è che difficilmente si
può fare centro se la testa, l’occhio e il braccio non sono una sola cosa con
l’arco e la freccia ma tre cose che vanno ognun per sé.
In tutto questo
cosa c’entra lo Zen? L’antica arte Zen vuole essere “solo” la “coscienza
quotidiana” che altro non è che “dormire quando si è stanchi, mangiare quando si
ha fame”. La coscienza Zen non vuole mettere da banda pensieri e parole ma
intende solo accordare al meglio la natura umana con il mondo che essa stessa è.
In tal senso il tiro con l’arco, prima visto come un’arte, è meglio detta una
ritualità o un esercizio spirituale. Possibile che in quella pratica che servì
per sopravvivere ci siano tutte queste cose spirituali? I dubbi sono leciti. E
forse, proprio il ritorno alla pratica del tiro con l’arco può meglio chiarire
cosa sia questa disciplina sportiva. La volontà di imparare è fondamentale,
certo, ma un buon arciere dovrà anche imparare, al momento giusto, a lasciarla a
casa. Perché la volontà, la distinzione tra mezzo e fine, il desiderio di
riuscire si frammezzano tra sé e l’arco e non permettono che lo strumento
diventi corpo e anima e il corpo e l’anima strumento. Ma quando l’arciere
riuscirà a scrollarsi tutto di dosso e avrà fatto spazio, senza accorgersene,
all’unico gesto giusto, quello che fa centro, allora si sarà in presenza di quel
colpo che gli arcieri Zen chiamano “Un colpo – una vita”. Il colpo di Michele
Frangilli non è stato forse proprio questo: un colpo – una vita? Lì tutto era
diventato uno: l’arco, la freccia, il bersaglio e lo stesso Io di Frangilli che
avrà visto davanti a sé l’occasione della vita posta sulla punta della
freccia.
Gli arcieri italiani sono arcieri e non maestri Zen. Praticano
il tiro con l’arco come sport e non come rito, si allenano con costanza,
pazienza e forse sfinimento e non praticano esercizi spirituali per annullare il
proprio Io nella natura del vento, della pioggia, dell’aria che è sempre se
stessa e uguale a se stessa. Sono messi anche bene in carne, come è stato
notato, e la pancetta ha fatto la sua bella figura su i più atletici e scolpiti
arcieri americani. Eppure, lo Zen ha lasciato il suo segno nel tiro con l’arco.
Eppure, è difficile negare che nel tiro con l’arco non sia in gioco un
equilibrio della mente e del corpo in cui non si sa bene se debba essere la
mente a seguire il corpo o il corpo a farsi mente. È difficile non vedere che il
primo bersaglio da colpire non è quello posto a settanta metri ma quello che
rende la freccia immobile come se fosse scoccata dall’arco di Zenone.
tratto da Liberalquotidiano.it del 1 agosto 2012