Magazine Cultura
di Federico Rampini
C’è un nuovo guru i cui testi sono diventati un’ispirazione per Wall Street: è un tedesco barbuto, si chiama Karl Marx. A riscoprire l’autore del “Capitale” e del “Manifesto del partito comunista” non sono solo i giovani che da tre settimane protestano contro i soprusi dei banchieri. Il movimento “Occupy Wall Street” è arrivato secondo in questa riscoperta. Il revival di Marx era già iniziato altrove: ai piani altri di quegli stessi grattacieli di Downtown Manhattan, contro cui i manifestanti gridano i loro slogan. Michael Cembalest, capo della strategia d’investimento per la JP Morgan Chase, in una lettera riservata ai clienti Vip della sua banca scrive che “i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari”. Cembalest riecheggia ampiamente l’analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provocate da un capitalismo che comprime il potere d’acquisto dei lavoratori. Sottolinea che a fronte dei profitti-record c’è “un livello salariale sceso ai minimi da 50 anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al Pil americano”. Tre suoi colleghi di Citigroup, altro colosso bancario di Wall Street, nei loro studi per i clienti descrivono gli Stati Uniti come una “plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro”. La rivista The New Republic parla di “bolscevismo alla Brooks Brothers”: è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa le celebri camice che sono uno status-symbol della élite di Manhattan. La rivista economico-finanziaria Bloomberg Businessweek intitola un reportage “Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti”. Cita un altro esperto di una grande banca, George Magnus della Ubs, secondo il quale l’attuale livello di disoccupazione può essere descritto come “l’esercito industriale di riserva” di Marx: un’arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoro e comprimere i livelli retributivi. Il capitalismo – sostiene Bloomberg Businessweek – ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè offrendo all’esercito dei nuovi poveri un credito a buon mercato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha interrotto quell’illusione.
Il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule universitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of Santa Cruz, California, un circolo interdisciplinare di lettura e commento dei testi del grande Karl, di Friedrich Engels e di Antonio Gramsci si è formato attorno al Dipartimento di Scienze Ambientali, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. Aumentano gli abbonamenti a The Nation, l’unica rivista storica della sinistra americana che non ha mai ripudiato il marxismo; la sua direttrice Katrina Vanden Heuvel è un’opinionista corteggiata dai network televisivi Abc, Cnn, Msnbc, Pbs. Per il pubblico di massa, la tv ha appena lanciato due serial praticamente sovversivi. Basta “Sex and the City” e altre storie erotico-frivole da borghesi spendaccioni, roba datata pre-recessione. Ora vanno in onda “2 Broke Girls” storia di due ragazze spiantate (vedi il titolo) che faticano per sopravvivere con i magri salari da cameriere. Sul network Abc il serial del momento è “Revenge”, dove la protagonista trama vendette contro i banchieri e altri privilegiati che hanno rovinato suo padre. Gli episodi si svolgono agli Hamptons, la località di villeggiatura marittima dei miliardari newyorchesi, luogo ideale per chi voglia punire i capitalisti. L’attrice Madeleine Stowe che recita da protagonista della “Vendetta”, è convinta che “in questo particolare momento della nostra storia, l’americano medio vuol vedere i ricchi messi al tappeto”. E’ un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent’anni, segnati dall’egemonia culturale dell’ “edonismo reaganiano”? Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diventato un tabù, perché il dogma dell’American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti. Per anni in cima alla classifica dei best-seller si sono avvicendati libri come “Secrets of the Millionaire Mind”, “The Millionaire Next Door”, “Rich Dad Poor Dad”: i lettori sembravano ossessionati dalla voglia di carpire i segreti del milionario della porta accanto, il suo modo di pensare, i metodi con cui educa i suoi figli. Perfino le chiese evangeliste si erano adeguate, scordandosi della parabola sul “ricco e la cruna dell’ago” avevano abbandonato il Vangelo di Matteo a favore di un culto della prosperità: successo e ricchezza come segni della predestinazione divina. Ora tutto ciò sembra invecchiato di colpo, di fronte all’efficacia dello slogan di “Occupy Wall Street”: “Siamo il 99%, riprendiamoci un’America che è stata sequestrata dall’1% dei plutocrati”. I manifestanti sono ancora un minoranza, ma dietro di loro c’è una realtà terribile. La recessione del 2007-2009 ha lasciato 25 milioni di americani senza lavoro e ha tagliato del 3,2% i redditi di chi ancora ha un posto. Dopo quella botta le cose non sono affatto migliorate, anzi: dal giugno 2009 al giugno 2011 il reddito della famiglia media è sceso ancora di più, meno 6,7%. Nel frattempo per i ricchi nulla è cambiato. E non importa se siano incompetenti: Léo Apotheker, il disastroso chief executive di Hewlett-Packard defenestrato dal consiglio d’amministrazione il mese scorso, è stato ringraziato con un “premio di licenziamento” di 13 milioni di dollari che si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio normale cioè 10 milioni in soli 11 mesi. Il suo collega chief executive di Amgen (biotecnologie) se n’è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell’azienda in Borsa era caduto del 7% e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti.
Barack Obama ha colto il cambiamento di clima e da un paio di settimane il suo tono è un po’ più radicale. Ha proposto la tassa sui milionari, sfidando la destra a bocciargliela al Congresso. Ha espresso “comprensione” per il movimento “Occupy Wall Street”, noncurante del fatto che la polizia di New York ne abbia arrestato 700 aderenti per il blocco illegale del ponte di Brooklyn. Subito da destra è partita contro il presidente l’accusa di “fomentare l’odio di classe” (Rick Perry), di “incitare alla lotta di classe” (Mitt Romney). Sembrano riecheggiare Ronald Reagan, il padre storico dei neoconservatori, quando diede la sua versione della discriminante tra destra e sinistra: “Noi aumentiamo la ricchezza nazionale perché tutti abbiano di più, loro redistribuiscono quello che abbiamo già, cioè spartiscono la povertà”. Ma il Verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent’anni di regressione delle classi lavoratrici e del ceto medio. Sotto lo shock di questo declino della middle class, si comincia a riscoprire che gli anni d’oro dell’American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all’epoca dei presidenti democratici Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt c’erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John Kennedy e Lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massimo potere contrattuale dei sindacati. David Harvey, il 75enne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a Oxford poi a Johns Hopkins) è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, “in mano al capitalismo sregolato e alla destra, l’economia di mercato va verso l’autodistruzione”. Un segnale arriva perfino dalla superpotenza governata da un partito che si definisce comunista. In Cina l’attenzione verso “Occupy Wall Street” è intensa, sul blog Utopia animato da accademici nostalgici del maoismo quella protesta viene definita come “l’inizio di una rivoluzione che spazzerà il mondo”. E non si limiterà agli Stati Uniti: secondo quei blogger cinesi “i paesi emergenti hanno lo stesso destino, le stesse sofferenze, gli stessi problemi e gli stessi conflitti; di fronte a una élite globale che è il comune nemico, i popoli hanno una sola opzione, unirsi per rovesciare lo strapotere delle oligarchie capitalistiche”. Come diceva Lui: proletari del mondo intero...
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