Bisbigliano dalle loro labbra carnose. Un piccolo attimo mentre cammini in cui il tuo viso li sfiora, il loro fiato lo senti nelle orecchie, nel cranio, perché ci passi accanto e per un momento è come se ti stringessero le palle tanto sono vicini al tuo corpo.
Essendo residente da 5 anni nel quartiere ho adottato una tecnica per cercare di non rovinarmi il fegato ogni volta che esco di casa. Li ignoro, come se fossero fantasmi, gli passo attraverso. Loro mi si parano davanti ed io, come Richard Ashroft nel video di Bitter Sweet Symphony, continuo a camminare come se davanti a me ci fosse un prato verde. Sereno.
A quanto pare è una tecnica che, a distanza di tempo, ha ancora bisogno di qualche modifica, perché ieri non ha funzionato perfettamente.
Ok, Innesto la modalità Ashcroft:
"No change, I can change, I can change, I can change, but I’m here in my mold I am here in my mold..”.
Ignoro, sereno, guardo davanti a me, penso alle mie cose, come un perfetto omertoso, un italiano medio insomma.
Muovo i primi passi che mi portano via da quel gruppetto. Li avevo ormai superati e già gli davo le spalle.
"But I’m a million different people from one day to the next I can’t change my mold. No, no, no, no, no”
Evidentemente a me il fumo me lo vogliono proprio dare perché, mentre li supero, continuano a chiedermelo, 1, 2, 3 volte.
Mi giro: “no, non voglio niente, capisci?!?”
Uno di loro si irrigidisce e mi manda a fare in culo sonoramente, guardandomi negli occhi, gridando, che lo sentano tutti.
Ok la sua voce era stata suadente e mi aveva soffiato maliziosamente nell’orecchio, ma non mi sembrava un motivo valido per prendersi il diritto di mandarmi a fare in culo perché all’angolo di casa mia io non abbia voluto comprare del fumo da lui ed i suoi amici che occupano il quartiere in cui vivo e di mestiere fanno gli spacciatori all’aria aperta.
Mi volto di nuovo e rispondo alla sua cortesia con la stessa cortesia: “vacci tu a fare in culo”.
Mi intima subito di fermarmi. Sono davanti alla macelleria a quel punto, accanto alla fontanella. E’ pieno di gente, davvero. Pieno. tutt’attorno.
Mi fermo, come mi aveva chiesto e lo aspetto. Lui e altri 3 amici attraversano dall’angolo del ferramenta per raggiungere quello dove ero io. Dall’accento, la cadenza e dalla morfologia dei loro volti posso supporre fossero nordafricani: (provate a farne l’imitazione nella vostra testa e l’immagine sarà molto più veritiera)
“Non fai il grosso co me, che fai o stronso, pasi così e non guardi..”.
Mentre mi si fa vicino, gli amici alle spalle. Lui mi afferra la nuca e indicando con la testa china la fontana, ma senza mai staccare i suoi occhi dai miei:
“perch’io ti metto qui a terra fontana e ti scopo..” e mima il gesto.
Ieri sera alle 23:00 all’angolo tra Via del Pigneto e Via Macerata, in un fiume di gente.
Io non sono Van Damme, ma neanche little miss sunshine, ma evidentemente a lui dei personaggi del cinema non gli interessa tanto. Lui non la pensa come me che quando sono in un paese straniero, in un altro continente, mi aggiro con rispetto reverenziale nei confronti di una cultura, rispettoso di un popolo e di un modo di condurre la vita quotidiana, timorato da un controllo e da una legge che mi giudica, lontano dal mio paese, dal mio continente. Evidentemente l’Italia e Roma non gli hanno dato l’impressione che qui ci fossero delle regole, dei valori civici, comuni. Avrà notato quanto ognuno si faccia gli stracazzacci propri qui, prevaricando, urlando, gonfiandosi come gli animali piccoli che vogliono impaurire quelli grossi, preoccupandosi di portare a casa la pellaccia e qualche euro raschiato qua e là senza alcuna dignità. Niente di più.
No, lui qui ha visto la merda e ci ha cacato sopra e poi si è messo anche la corona in testa. Come le scrofe che si beano rigirandosi nel fango e schizzano melma sui maiali tutt’attorno.
Mi divincolo dalla presa e capisco che può mettersi male, lui mi si appiccica addosso, seguito dai suoi amici per i successivi 5 metri che percorro.
“Io non voglio un cazzo da te e non ti ho risposto, punto. Mi devi lasciare stare”.
Eravamo davanti alla pizzeria Il Fiorentino, la gente era parecchia e lui decide di mollare il colpo durante la nostra amabile conversazione. La sensazione che ho provato mentre tornavo a casa dopo questo episodio, la ricordo come la più brutta degli ultimi 5 anni a questa parte. Le mani addosso, le minacce a sfondo sessuale da un uomo verso un altro uomo. La netta sensazione che non avevo a che fare con immigrati in un paese straniero, ma con dei criminali accanto a casa mia.
Io una risposta gliela DEVO quando passo. DEVO dirgli se il fumo lo voglio o no. DEVO salutarlo se mi saluta e sorridergli se non voglio comprare niente o se fa un apprezzamento galante alla ragazza che porto per mano, scatenando l’ilarità dei suoi compagni che incalzeranno e la violenteranno verbalmente davanti a me. DEVO sorridergli, sennò questo mi accoltella.
Solo stamattina ho realizzato che quella sensazione che tanto mi aveva disturbato l’avevo provata un’altra volta nella vita, a Bari, tanti anni fa. A Bari, dove sono nato e cresciuto durante tutti gli anni '80 e '90, io e tutti i miei amici, tutti i baresi che cercavano di vivere nella legalità dovevano confrontarsi quotidianamente con vessazioni di qualsiasi genere. C’erano le zone off-limits, gli occhi da non incrociare, gli scippi a tua madre scaraventata per terra, le bombe sotto casa, le violenze su di te, bottiglie infrante per minaccia, sparatorie, furti ai ragazzini davanti ai centri commerciali, i clan, le zone controllate, gli scooter vedetta con le facce note, i pestaggi dei piccoli malavitosi ai piccoli borghesi, la prevaricazione, la paura. Tutti DOVEVANO vivere così, perché è così che era. Questa era la mafia a Bari.
"Non posso reagire perché qui ci vivo, qui domani mi ci devo di nuovo svegliare". Così ho passato la mia infanzia e l’adolescenza. Appena conseguito il diploma ho lasciato Bari e non ci sono più tornato a vivere perché quella sensazione palpabile che tutti vivessimo abituati, assuefatti, rassegnati ad uno stato cose tanto tossico quanto violento, non la sopportavo più.
L’omertà che innesca la paura e la paura che innesca l’omertà.
In 5 anni me ne sono capitate di tutti i colori qui al Pigneto, a volte ci andava di mezzo una mia amica che veniva a trovarmi, a volte solo io. A volte i muri della mia casa, a volte il portone che puzzava di piscio... i morti, gli accoltellati, il sangue per terra, le retate, i cani poliziotto, i centri sociali e gli avvocati dei senegalesi, i camorristi che portano la merce, agenti di polizia che fanno finta di essere amici dei commercianti e viceversa, le camionette fantoccio, il vomito, i vetri infranti, bambini che corrono tra profumi della cocaina fumata all’aria aperta, la merda di cane e una bestemmia sguaiata urlata in romanesco.
Insomma, tante. Ieri però, sulla strada verso casa, ho pensato che qualcosa di troppo importante fosse successo. In questo orinatoio a cielo aperto che è il Pigneto, in questa cloaca immonda di illegalità, ipocrisia, disprezzo e criminalità, abbiamo una gerarchia tra i buoni e i cattivi. Tra i "cattivi ma buoni" e i "cattivi cattivi". Abbiamo i difensori degli uni e degli altri. In questa panacea ributtante di monnezza, tracotante di volgare e sudicia omertà e grondante percolato ad ogni angolo non c’è più un filo d’aria pulito che si possa respirare.
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"But I’m a million different people from one day to the next I can’t change my mold. No, no, no, no, no” .Roberto - racconto preso da Pigneto.it su Facbeook. Perché son cose che vanno divulgate