Tarrés ha battuto tutti gli altri comuni spagnoli sul tempo ed è stato il primo ad approvare una legge che vieta il burka eil niqab negli edifici e negli uffici pubblici. Per raggiungere questo primato l’amministrazione ha dovuto sorvolare solo su di un piccolo particolare. La piccola cittadina agricola di Lleida non ha neanche un immigrato tra i suoi 109 abitanti. Può sembrare bizzarro ma in realtà è l’esempio perfetto di come per essere xenofobi non c’è bisogno dell’invasione islamica. Basta averne sentito parlare. Tutti i discorsi sulle soglie di immigrati oltre le quali l’integrazione diventa impossibile ed essere razzisti diventa giustificabile sono delle enormi puttanate. Lo erano anche prima che il simpatico sindaco di Tarrés ce ne desse l’ennesima prova. Nella cittadina spagnola non ci sono immigrati ma anche se ve ne fossero sarebbe scarsa la probabilità che indossino il burka. Lo è anche in città molto più grandi e con percentuali molto alte di immigrati di religione musulmana. Le donne che indossano il velo integrale sono un’esigua minoranza. La minaccia è dunque numericamente insignificante fino a raggiungere il paradosso di Tarrés. Se non ci fossero gli immigrati li inventerebbero i leghisti. Eppure Daniel Rivera, cosi si chiama il sindaco del Partito per la Catalogna, si giustifica dicendo che “prevenire è meglio di curare”. Ma prevenire e curare che cosa di preciso? Il pudore impedisce che si parli apertamente della presenza di immigrati e allora si parla di criminalità. Spesso si adducono motivi di sicurezza per giustificare leggi contro l’uso del burka e del niqab come se questi da soli fossero in grado di favorire la commissione di atti criminali. In realtà coprirsi il volto impedisce al massimo di poter essere identificati dai testimoni o dalle telecamere dopo aver commesso un crimine. E ad oggi non risultano più casi di rapine da parte di persone col volto coperto dal velo islamico di quelle da parte di persone col volto coperto da maschere raffiguranti presidenti degli Stati Uniti. Per essere identificati prima di commetterlo invece, bisogna essere già noti alla polizia e dunque aver già commesso altri crimini. Evidentemente senza indossare il burka. Per non parlare del fatto che la quasi totalità dei crimini avviene a volto scoperto. Quella del burka sembra dunque una paura irrazionale e persistente di qualcosa che non rappresenta alcun pericolo concreto. C’è una parola che descrive questa sensazione. Si chiama fobia. Ciò che spaventa è il fatto stesso che qualcuno possa avere il volto coperto. Ma ancora non basta. Ci sono altre cose che coprono il volto fino a rendere irriconoscibili senza per questo spaventare. Il casco, cappelli, occhiali da sole, sciarpe, maschere. Ciò che spaventa è il burka in sé. Ci spaventa il burka perché lo associamo all’Islam che a sua volta associamo al terrorismo. Si chiama condizionamento. Quello che Pavlov è riuscito a fare con i cani altri sono riusciti a farlo con gli elettori. Pavlov suonava una campanella per far salivare i cani. Altri agitano il velo per far secernere voti. Ora non importa che Rivera o i leghisti credano davvero in quello che dicono e fanno, può darsi che anche loro siano vittime di altri pifferai magici. Quello che conta è che sfruttano e riproducono sentimenti xenofobi per raggiungere il loro scopo: divenire popolari o ottenere più potere. Quale altro mezzo più efficace e a basso prezzo avrebbe potuto utilizzare il sindaco di un paese di 109 abitanti per diventare famoso oltre i confini del suo cortile di casa? Non posso prevedere in anticipo la carriera del sindaco spagnolo ma conosco quella di alcuni suoi predecessori. In Italia c’è chi è diventato ministro dell’interno chi ministro delle riforme chi ministro della semplificazione chi presidente di una regione. In Germania qualcuno c’è diventato addirittura Reich. Dipende tutto dalle ambizioni che si hanno.
Magazine Pari Opportunità
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