Contro-Editoriale: Che sia maledetto, di Ankita Anand, trad. di ANdrea Morgione:
<< Ormai da anni ho cercato di arricchire il mio vocabolario di parolacce senza frecce problematiche al loro arco. Ci sono momenti in cui ho un urgente bisogno di usare oscenità, per esempio contro tutti i molestatori in bici e auto che mi fischiano o mi sfiorano schizzandomi accanto, mancandomi letteralmente per un pelo. Devo avere l’ultima parola, se non l’ultimo schiaffo, nella situazione e devo sbraitare qualcosa a tali molestatori. Divento frustrata se la limitata scelta di parole nel mio assortimento ormai non più aggiornato fa sembrare che io in effetti stia fornendo armi alla parte opposta, invece di impiegare le medesime contro di loro.
Qui, sto usando il termine “parolaccia” per riferirmi all’abuso, parole che sono nettamente dirette contro qualcuno e non soltanto parole da mugugnare senza farsi sentire sospirando, come se le si stesse esalando durante il respiro. Facciamo un inventario:
abbiamo figlio di puttana, quella troia di tua sorella, figlio di troia (da qui in poi saranno FDP, QTS e FDT), così come anche bastardo e molte altre complesse variazioni sullo stesso tema, come ad esempio sviluppato da Scorsese (non so se sto mancando alcune pietre miliari significative in inglese ma in Hindi, la mia prima lingua, non abbiamo molta scelta). Ora, usare FDP e QTS implicherebbe l’essermi rassegnata al credere che gli uomini sono sempre quelli che lo danno e le donne quelle che lo prendono. La connotazione più ampia è che se alcuni uomini non sono fidipù o QTS, è per via dell’innata gentilezza e bontà nei loro cuori, sebbene possano (denotando una naturale predisposizione) recitare il loro ruolo se lo desiderano, poiché le donne ovviamente non avranno mai alcuna possibilità di scelta in materia. E mai nella mia vita io deruberò le donne della capacità di agire. Come scrive Germaine Greer in The Female Eunuch, “Tutta l’enfasi linguistica verbale è posta sull’elemento del colpo: fottere, fregare, attecchire, chiavare… sono tutti atti compiuti sulla donna passiva…”.
FDP è di nuovo supposto essere offensivo nei confronti delle donne, sebbene ci possano essere ampie speculazioni su che tipo di oscure leggende siano state disseppellite riguardo le puttane per averle inserite in questa categoria, rappresentandole come peggiori degli umani. Una parola come stronzo (NotaDelTraduttore: l’originale inglese, asshole, sta per buco del culo) gira, di nuovo, intorno al corpo. Perché una parte del corpo dovrebbe essere insultante? In una parola, merda. L’offesa che causa è all’oeuvre scatologica di Rabelais, che i suoi racconti hanno utilizzato nelle maniere più fantasiose. Anche se usare il termine “stronzo” è l’idea che un bambino potrebbe avere di “rivoltare” qualcuno, l’uso che io ne faccio non è solo per far star male le altre persone, ma anche per dire loro come esattamente sono stati abominevoli.
Alcuni suggeriscono che le donne dovrebbero utilizzare “l’equivalente maschile” per gli uomini dei termini misogini. Molte espressioni volgari sono già diventate unisex nel loro utilizzo. In Holy Sh*t: A Brief History of Swearing (NdT: holy shit viene convenzionalmente tradotto come porca troia) Melissa Mohr ci dice:
Con lo sviluppo del femminismo, molte parolacce sono diventate più eque, non meno. Troia può ora essere applicato agli uomini e alle donne, e così zoccola (NotaDelTraduttore: e a onor del vero se ne sentono riferite a maschi, anche se sono collegate a un altro tipo di razzismo, ossia quello omofobo, basato su fatti veri, presunti, o semplici prese per il culo di pessimo gusto). Nel diciannovesimo secolo merda utilizzato come nome era riservato esclusivamente agli uomini-il Dizionario del West Somerset lo definisce come “un termine di disprezzo, applicato ai soli uomini”, come in “Quello è una vera merda”. Ora anche le donne possono lavorare, votare, possedere una proprietà ed essere definite delle merde.
Ma che ci guadagno a chiamare qualcuno figlio di puttano o a dire che suo fratello è un troione? E usare questi termini adesso, in un modo neutrale nei confronti del sesso, certamente non altera la loro storia sessista. Anche se una donna dice “non fare la femminuccia” a un’altra donna o a un uomo, questo è ancora un approccio riduttivo dove una particolare nozione di “femmina” (o donna) come sfortunatamente femminile e quindi meno che femminile rimane congelata nel tempo.
Mentre le summenzionate imprecazioni sono offensive nei confronti delle donne, altre non vanno lontano dal sesso e dalle sue conseguenze. Un bastardo, per esempio, riporta alla mente la “illegittimità” di un’unione senza il vincolo del matrimonio, una reliquia delle oscure ere passate. Il teatro della Restaurazione, d’altro canto, era tutto intento ad augurare ogni sorta di sventura sessuale ai suoi personaggi. Un’opzione è continuare con i vecchi termini e semplicemente usarli come sfogo, senza che essi abbiano un qualsiasi valore reale. Ma in questo modo stiamo semplicemente comunicando all’altra persona la nostra rabbia senza davvero dirgli perché siamo arrabbiati. In questo modo loro possono attribuire il gesto al nostro mero “sentimento” piuttosto che al loro “compiuto”. Da tutto ciò deriva che lo scopo dell’imprecare andrebbe perso (io stessa mi sono dovuta mordere la lingua diverse volte prima di pronunciare uno di questi stessi vocaboli).
Per tutto il nostro pensiero in divenire, i maledetti punti di regressione continuano a mostrarsi. Sussultiamo ancora a pensare ai “peccati” della carne e di conseguenza abbiamo la sensazione che i peggiori mali del mondo abbiano a che fare con il sesso e il corpo. Certamente nascere “bastardo” non è un “peccato” più grande di essere fondamentalista, crudele o disonesto. Eppure le parole scritte appena sopra sono meri aggettivi, non “imprecazioni”. La nostra scelta di abuso linguistico è una riflessione su noi stessi, su cosa consideriamo accettabile e su cosa lasciamo correre. Anche se fossimo capaci di rivestire queste parole di un significato più forte, l’ombra della loro etimologia sessista continuerebbe ad aleggiare, immensa, sopra di loro. Se siamo veramente devoti all’equità, ora abbiamo la nostra chance di costruire un nuovo vocabolario di parolacce senza discriminazioni di genere.
Ankita Anand è stata segretaria della Campagnia Nazionale per il Diritto della Gente all’Informazione; revisore di testi per la Penguin Books India; coordinatrice per Samanvay: Festival delle Lingue Indiane IHC; infine membra dell’Unione della Gente per i Diritti Democratici. È la cofondatrice di un gruppo teatrale di strada, Aatish, che produce opere su problemi sociopolitici. Il suo interesse principale risiede nel lavorare per la prevenzione della violenza contro le donne, e attualmente è parte di un progetto chiamato Genderventions che usa il teatro per rendere gli spazi pubblici più amichevoli e accessibili alle donne. Visitate il blog di Ankita per altri suoi scritti.>>
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ps PerSonale: l’articolo di Ankita Anand mi fa sorridere perché mi fa venire in mente cose piuttosto lontane e altre molto recenti: il primo vero rimprovero di mia mamma di cui ho memoria storica (sull’uso di “troia”-bandito da casa- che la portò ad una digressione più ampia sull’autodeterminazione!); Piero che diventa fucsia se sente un accenno a una parolaccia (e quindi a Giovanni, che quelle che sente a scuola me le sussurra nell’orecchio come fossero cose dell’altro mondo); e alla mia amica Roberta, con la quale in trentuno anni di amicizia ne ho condivise davvero tante, di parolacce (cocci rotti e raccolti assieme a pezzi di vita). Conoscendola un poco credo che ieri, mentre stava per nascere la sua bimba, ne abbia potuto pensare qualcuna…
Benvenuta in questo mondo Giorgia, sei l’ amore di mamma e di zia!