Se non puoi controllarli, destabilizzali. rivolte di piazza e strategia americana

Creato il 11 ottobre 2014 da Eurasia @eurasiarivista
Stati Uniti d'America :::: Amedeo Maddaluno :::: 11 ottobre, 2014 ::::  

A) UNA LUNGA PREMESSA GEOPOLITICA

A che servono i complotti?

E’ opportuno inquadrare i fatti di cui ci accingiamo a parlare nella strategia geopolitica americana, recentemente definita da Demostenes Floros “caos controllato”1. Occorre premettere che le teorie complottiste che vogliono tutti gli eventi che si succedono drammaticamente nei paesi non occidentali come rispondenti ad un’unica centrale americana siano poco convincenti. E’ innegabile che però operatori di intelligence e ONG americane o anglosassoni si attivino quantomeno come “facilitatori” di eventi destabilizzanti nei confronti di avversari, concorrenti – e alleati scomodi. E’ difficile credere che l’intelligence americana abbia attivato e gestito artificialmente un processo travagliato e complesso come le rivolte arabe: ad esempio, per eliminare un Mubarak o un Ben Ali (impopolari in patria) salvaguardando però la stabilità di paesi amici una congiura di palazzo sarebbe stata preferibile. E’ comunque chiaro che il fine ultimo della destabilizzazione del mondo arabo per impedirvi la penetrazione russa e cinese presupponga al contrario un lavoro carsico molto più complesso che si è trovato ad includere anche la rimozione dei regimi laici a vantaggio saudita (e qatarino). E’ utile sottolineare che nessuno dei movimenti gihadisti gemmati da Al Qaeda dopo le rivolte sembri sin ora costituire un pericolo concreto per Israele (sono anche di frequente avversari tanto di Hamas quanto del nazionalismo laico e socialista palestinese). Anche questo non significa automaticamente che l’intelligence israeliana manipoli gli eventi ma può senz’altro suggerire spunti di riflessione.

America, Cina, Russia

Obiettivo ultimo delle manovre americane di lungo termine sono la Russia e la Cina. Della Russia molto è già stato detto: far apparire Putin come aggressore provocandone la reazione dopo aver sabotato la fascia di sicurezza russa che passa inevitabilmente dall’Ucraina e dai Paesi Baltici ha permesso di ridurre la Russia all’isolamento dall’Europa (un’Europa incapace di proporre alternative politiche a causa della crisi economica e delle divisioni). I paesi Baltici pongono la NATO a pochi chilometri da Mosca e San Pietroburgo, mentre una penetrazione NATO in Ucraina pone forze potenzialmente ostili vicino ai centri urbani e industriali russi e costituisce un coltello straniero che può separare il centro nevralgico del paese dal Caucaso (proprio la strategia tedesca durante l’ultimo conflitto mondiale). Secondo tassello dell’indebolimento della Russia, del Venezuela e dell’Iran è il persistente calo dei prezzi del petrolio collegato alle attività saudite e al boom degli idrocarburi non convenzionali, boom “artificiale” in quanto sostenuto da massicci investimenti su pozzi meno produttivi in termine di costi di estrazione e di picchi produttivi. Qualora il prezzo generale dei combustibili fossili continuasse a calare l’attività di fracking potrebbe diventare paradossalmente meno conveniente per sua stessa causa: ecco che il tutto si spiega come chiara strategia politica di indipendenza energetica americana, strategia che permette anche un affrancamento dal Medio Oriente – area divenuta talmente poco interessante per gli USA che essi possono permettersi di “trattare” lo Stato Islamico con semplici bombardamenti e tattiche aeree (poco efficaci contro un nemico che per quanto si autodefinisca “Stato” fa in realtà ampio uso di tecniche asimmetriche e che ha strutture logistiche flessibili). Il punto debole di questa macrostrategia statunitense (“destabilizza ciò che non puoi conquistare”) risulta essere, in definitiva, la Cina. Un prezzo più basso degli idrocarburi la favorisce piuttosto che danneggiarla e anche qualora se ne inibisca l’accesso al Medio Oriente si spingono comunque Iran e Russia nelle sue braccia. Ecco che allora si procede attuando una strategia di accerchiamento del Celeste Impero da parte di stati ostili (criticità: l’ambiguità dell’India, anticinese ma filorussa). A tendere si favoriranno contro di essa delle rivolte di piazza? Hong Kong, culturalmente quasi un cavallo di troia occidentale in Cina, sembra essere l’ottimo punto di partenza per tale movimento. Sarebbe interessante capire se e quanto vi siano collegamenti non solo culturali ma anche economici e organizzativi tra gli studenti della città e ambienti politici anglosassoni. E’ sempre utile ribadire che i complotti spesso non servono: basta la promozione di una cultura, di una mentalità e di un’idea.

B) DALLA STRATEGIA ALLA TATTICA: LA DIFESA DELLO STATO

Perché studiare le rivolte

I recenti eventi di Hong Kong, a pochi mesi da quelli di Kiev e Caracas e mentre il Medio Oriente è ancora avvolto nelle fiamme conseguenti alla destabilizzazione operata dalla Primavera Araba, riportano al centro del dibattito strategico un tema antico ed attualissimo: la tutela della stabilità dello Stato. Il minimo comun denominatore di questi eventi è il loro carattere globalizzato pur nel nuovo mondo multipolare: il paradigma è quello dello spettacolo della pacifica rivolta popolare che si avvale dei moderni strumenti di comunicazione.

Similitudini tra le proteste interne al mondo occidentale e quelle interne a paesi non occidentali
Molte sono le differenze tra il movimento dei giovani di Hong Kong, quelli del Cairo e quelli di Kiev, eppure vi è qualcosa che accomuna questi movimenti a quelli degli indignados e dai movimenti nimby (come i NO-TAV) europei, agli Occupy Wall Street americani e ai movimenti ecologisti e bracciantili sudamericani: la percepita mancanza di rappresentatività, tanto da parte dei sistemi liberlademocratico-capitalisti quanto di quelli autoritari o maggiormente statalisti. Per quanto possano essere diversi i manifestanti della sinistra europea, figli di un ceto popolare di nuovi poveri, l’eterno proletariato urbano – oggi alfabetizzato – in Egitto o gli studenti borghesi di Hong Kong, ciò che accomuna tutti i brodi di coltura della protesta è questo: il non sentirsi rappresentati al di là dell’effettivo riscontro di tale percezione. Quindi, dove sta il livello geopolitico della vicenda e dove le differenze? Nel fatto che chi protesta ad Atene viene criminalizzato dai nostri media mentre chi protesta a Kiev viene esaltato. Ancora: perché? E perché i manifestanti di Kiev sono vincenti e quelli di Atene perdenti?

Il manifestante non occidentale come strumento: lo schema delle rivolte.

Ebbene: per sua stessa natura, anche quando inconsapevole e in buona fede o quando usufruisce di finanziamenti, addestramento, preparazione, appoggio mediatico, diplomatico e logistico attuati palesemente o surrettiziamente tramite una rete globale di ONG occidentali, il manifestante non occidentale è strumento della geopolitica degli USA e dei suoi alleati – si pensi al caso turco sul quale l’occidente non ha speso un decimo dell’indignazione che ha mostrato per i fatti di Kiev a riconferma della natura strumentale degli interventi delle nostre cancellerie. Laddove il manifestante occidentale rincorre obiettivi astratti, il manifestante non occidentale è più forte perché ha un obiettivo politico chiaro e immediato: il superamento della condizione contingente. Ciò non vuol dire che abbia un programma per il “dopo” ma proprio questa povertà strategica lo rende ancor più utilmente manipolabile. L’hic et nunc però è chiarissimo: “il popolo vuole la caduta del regime” (2). Quando poi la reazione dei governi e le provocazioni degli infiltrati dei servizi e delle stesse forze di sicurezza hanno causato il superamento della fase “non violenta” della protesta, durata però abbastanza da qualificare il manifestante come vittima, ecco che intervengono soggetti ben più adusi allo scontro e in grado di battersi con la polizia, ormai avvolta nel sudario morale di “macellaio del proprio popolo”. Il campo è sgombro per i vari Fronte Al Nusra, Pravij Sektor e Svoboda, vera manovalanza degli interessi USA (sempre al netto delle differenze tra loro). Vi è dunque uno schema di base, uno schema fatto di regole proverbialmente confermate dalle eccezioni: in Serbia Milosevic era già sufficientemente logorato da non richiedere eccessiva violenza per essere abbattuto mentre ad Hong Kong non vi sono né fondamentalisti islamici né estremisti di destra e nemmeno ultras da stadio in grado di prendere le armi contro le forze di sicurezza.

Non più “reprimere” ma “gestire”.

Nonostante le differenze e anzi, proprio in virtù di esse e del pericolo che tali proteste rappresentano per la stabilità dei governi delle aree geopoliticamente più complesse del globo, gli stati posti sotto attacco da questa raffinata strategia destabilizzatrice si attivano per difendersi in modo nuovo. L’operato delle forze di sicurezza di Hong Kong – almeno fino alla data in cui scriviamo, il 3 Ottobre 2014 – è da analizzare. Non punta a reprimere la protesta (creando martiri la cui pericolosità è proporzionale al peso che i media diffusi hanno nella nostra epoca) bensì mira a spegnerla, ad assopirla togliendole ossigeno. Tutto si gioca su due livelli: quello fisico e quello della comunicazione. Vediamo di capire come nel modo più sintetico possibile, partendo dall’operato più recente della polizia cinese (nei limiti di quanto ci sia noto) e aggiungendo alcune considerazioni.

1. Il momento “fisico” dello scontro: niente martiri.

Il manifestante pacifico non va reso martire. Quello non pacifico non deve avere l’occasione di nuocere. Come conciliare queste due esigenze? Allontanando le forze di sicurezza dal terreno di scontro e impedendo così che entrino a contatto coi manifestanti. La polizia deve (al massimo) presidiare i luoghi nevralgici dell’amministrazione pubblica e i centri chiave della comunicazione logistica e mediatica per prevenire sabotaggi. Come tutelare l’autorità e l’immagine dello Stato nei confronti del cittadino che non supporta le proteste ma chiede sicurezza? Chiedendo ai negozi di rimanere chiusi a causa del pericolo rappresentato dai “teppisti” (così verranno definiti nella prima fase della protesta) e dei “terroristi” (così solo a protesta avanzata se “qualcuno” avrà compiuto saccheggi. Sempre meglio non abusare del termine e non inflazionarlo). Ciò mostrerà la polizia come forza di pace: non vuole alzare le mani su quelli che sono pur sempre “figli nostri”. Certo, ciò porterà ad un deficit di sicurezza. La colpa è dei manifestanti. I negozi restino chiusi, le attività economiche ferme: ciò alienerà verso chi protesta le simpatie dei cittadini.

2. La comunicazione: deve risuonare una sola voce.

Quella del governo. I media devono raccontare la professionalità delle forze dell’ordine. Nulla deve trasparire delle ragioni dei manifestanti. Devono essere ridotti a corpo estraneo rispetto al resto del tessuto sociale. Quanto ad internet, va oscurato senza annunci di volerlo fare e nel silenzio più totale. Anche la rete dei cellulari va disattivata, insieme alle cellule e ai server. Tutto potrà essere attribuito ad incidenti in un secondo momento. Staccare internet può essere però un’arma a doppio taglio: è utile al nemico ma utile anche per ascoltarlo e spiarne le mosse. Lo spegnimento può essere interpretato come un segno di debolezza del governo: deve durare lo stretto indispensabile e va attribuito ad incidenti o sabotaggi dei manifestanti per quanto ciò posa essere credibile. Se il nemico non può comunicare io non lo posso ascoltare. Il buio notturno costringe a casa le persone oneste e lascia via libera ai criminali ed al nemico: questo però aumenta nei cittadini il senso di insicurezza e anomia associato al periodo di proteste.

3. La repressione chirurgica. Dosare la forza.

Evitato lo scontro di piazza, attivata la propaganda e “accecato” il più possibile i manifestanti non si può però lasciare loro troppo tempo. Gli infiltrati provvedono a fornire le coordinate del nemico. Al di là dell’affidamento che si può fare sull’Elint, Osint e Sigint il fattore Humint – human intelligence – rimane fondamentale. I capi della protesta e della sommossa vanno individuati e posti agli arresti ma in modo chirurgico, possibilmente di notte e nel silenzio e mai durante gli eventi. Mai, chiaramente, in favore di telecamere. Le operazioni di arresto devono essere discrete. Non un arresto in più del necessario. Non arresti di massa: questi forse provocano spavento, ma affrontare lo spavento rafforza il nemico. Pacifico che ogni attività delle ONG straniere vada severamente vietata e anzi, bisogna favorire la mobilitazione di quella parte della popolazione favorevole al governo, facendo sì che il manifestante non possa ergersi a “voce del popolo”.

Conclusioni: Sun Tzu

Le tattiche implementate dalle forze di sicurezza cinesi – e sempre più da quelle russe – non mirano a vincere la battaglia urbana: mirano a evitarla applicando Sun Tzu all’ordine pubblico. Spegnere la rivolta “politica” dei manifestanti significa sottrarre dalla loro vista l’obiettivo politico (il governo e le sue articolazioni).

C) APPENDICE: COME MAI LE PROTESTE DI CASA NOSTRA SONO INEFFICACI

Sarebbe interessante, una volta compreso “come funzionano” le rivolte o i tentativi di rivolta fuori dall’occidente e come i governi provano a reagire, comprendere anche perché i manifestanti in occidente non riescono a raggiungere obiettivi di sorta. Come mai nei paesi non occidentali si abbattono governi autoritari mentre da noi non si riesce ad ottenere nemmeno il minimo da governi eletti? Innanzitutto, lapalissianamente, perché la natura elettiva dei nostri governi ne preserva quantomeno la formale legittimità. Si calcoli poi che nei paesi occidentali i giovani sono di meno di adulti e anziani e possono quindi contare su scarso peso numerico; in aggiunta, mentre i giovani arabi – ad esempio – non avevano nulla da perdere, i nostri giovani hanno da perdere il sostegno dei loro genitori – spesso unica fonte di reddito – contro i quali non si rivolteranno mai. E’ il “paradosso dell’embargo” che non aliena alla popolazione il governo del paese sotto sanzioni ma anzi la rende dipendente da esso per la distribuzione delle poche risorse di sopravvivenza. C’è dell’altro: nessuna potenza esterna o forza mediatica appoggia e sostiene chi manifesta in occidente o tra i suoi amici (ancora il caso Gezi Park). Il punto da cui siamo partiti è però quello della visione politica: anche se soli, pochi e poveri, coloro che hanno un progetto politico strutturato – come insegna il meglio della letteratura leninista – possono ottenere qualcosa. Ecco che apprendiamo che l’obiettivo di ogni rivolta, sommossa, rivoluzione e manifestazione deve essere politico e chiaro. Non si fa una manifestazione, non si organizza una rivolta o una dimostrazione per chiedere “un mondo migliore”, “più solidarietà”, “meno austerità” e altre cose vaghe o astratte. Si scende in piazza in massa per le dimissioni del ministro X, si blocca il paese con uno sciopero generale per chiedere il ritiro della legge Y. O il tema politico è concreto o non è. L’obiettivo deve essere raggiungibile e futuro. Non ha senso abbandonarsi alla violenza anti-TAV quando il progetto è già partito dopo anni di programmazione. Si può però bloccare una legge “to be” che parla di privatizzazione del servizio di gestione delle acque. Senza tattica non c’è strategia ma senza visione non possono esserci né l’una né l’altra.

NOTE
1) http://temi.repubblica.it/limes/il-caos-controllato-degli-usa-dallo-stato-islamico-allucraina/66944
2) “Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām”, slogan della “Primavera Araba”.

Bibliogafia
Sun Tzu, “L’arte della guerra”, Mondadori, 2004
Alfredo Macchi, “Rivoluzioni S.p.a. Chi c’è dietro la primavera araba”, Alpine Studio, 2012
Roberto Iannuzzi, “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, Castelvecchi, 2014

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