Se prima della Thatcher era morto il thatcherismo

Creato il 11 febbraio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

L’8 aprile 2013, un tranquillo giorno di primavera, se ne andava Margaret Thatcher. Tra il 2007 e il 2008, però, si era già dissolta – e forse per sempre – la sua eredità politica. Una carica ideale e pragmatica, il «thatcherismo», che dagli anni Settanta aveva saputo orientare e determinare le scelte di vari governanti, non solo del mondo anglosassone; un movimento di pensiero che oggi, quando la crisi – come nel Ventinove – è attribuita al mercato e alla concezione liberista dell’economia, non affascina più nessuno.

Il thatcherismo ha subito un matricidio: è stato cioè ucciso dai suoi stessi figli, nel Regno Unito. È stato ucciso quando Tony Blair ha lasciato Downing Street: dopo un decennio in cui era riuscito a trasformare un partito di sinistra in un «nuovo centro» di ispirazione liberaldemocratica, Blair si dimetteva favorendo l’avvento di Gordon Brown, suo storico avversario interno ed esponente dell’ala più tradizionalista del partito. Come la crisi avesse cambiato – anzi, stravolto – i paradigmi della politica, fu evidente pochi mesi dopo: il governo Brown, per salvarla dal fallimento, nazionalizzava (seppur temporaneamente) la banca Northern Rock. La prima statizzazione dopo decenni in cui la politica britannica aveva preferito liberalizzare e trasferire dal pubblico al privato; il primo sintomo di un’inversione di tendenza che dura tutt’oggi. I Tories – nuovamente al potere dopo il fallimento di Gordon Brown – hanno vinto nel 2010 puntando sul modello di «Big Society», chiara sconfessione del thatcherismo: la società non esiste, diceva la Lady di Ferro; esistono gli individui: uomini, donne, famiglie. Ci sarebbe da aggiungere che lo stile personale – e comunicativo – di Cameron è ben diverso da quello di «Maggie», anche e soprattutto in vista di un confronto elettorale – quello previsto per maggio – con un Labour tornato improvvisamente «Old», abbarbicato ai vecchi schemi novecenteschi. Ma non è questo il punto.

Il punto è che è finita un’era: quella inaugurata – paradossalmente – proprio da un premier laburista, James Callaghan, che nel 1976 osò sfidare una platea sindacale gridando la sua visione monetarista dell’economia. La Thatcher era leader dei conservatori da un anno, e aveva già imposto il suo credo. «Un aumento dell’inflazione seguito da un aumento della disoccupazione: questa è la storia degli ultimi vent’anni», aveva detto Callaghan. L’ala massimalista del partito non glielo perdonò: la sua esperienza di governo fu travagliatissima e si concluse con un’ampia sconfitta. Arrivò quindi «Maggie», e mentre lei perseguiva una decisa inversione di tendenza (dopo che nessuno dei suoi predecessori aveva provato a far dimagrire l’immenso apparato assistenziale), il mix di liberismo e monetarismo prendeva piede anche oltreoceano: Reagan divenne presidente dopo una campagna all’insegna della lotta all’oppressione fiscale. Gli anni Ottanta, al di là dei fenomeni culturali, sono stati percorsi da una ventata di libertà: meno tasse, meno spese improduttive, maggiore apertura dei mercati, maggiore vicinanza tra governanti e governati. Ma fu grazie al crollo dei regimi comunisti e alla fine del collettivismo, all’inizio degli anni Novanta, che la rivoluzione thatcheriana poté meglio esplicare i suoi effetti.

Il simbolo della deregulation, ma anche l’apparente segno della fine del keynesismo, fu l’abrogazione – da parte dell’amministrazione Clinton, nel 1999 – del Glass-Steagall Act, il provvedimento con cui Roosevelt (per combattere gli effetti del Ventinove) aveva decretato la separazione tra banche commerciali e d’investimento. Ma la situazione è cambiata, e anche repentinamente. Mentre l’Inghilterra si mostrava entusiasta di Blair e del nuovo corso laburista, la controffensiva – un altro paradosso – partiva dagli Usa: se Bush padre aveva compiuto diversi passi indietro rispetto alla politica fiscale reaganiana, Bush figlio operava scelte prima protezioniste (il criticatissimo – e poi abolito – dazio sull’importazione di acciaio, nel 2002) e poi addirittura stataliste: la crisi finanziaria del 2008, col fallimento del colosso Lehman Brothers, era l’occasione per un massiccio intervento pubblico, un salvataggio coi soldi dei contribuenti (bail-out) costato ai cittadini americani svariati miliardi di dollari. L’integrazione europea era un altro obiettivo polemico della Thatcher, la quale, non credendo che certe concezioni monetariste e liberoscambiste si sarebbero tramutate in effettivi interventi politici, si batteva affinché il Regno Unito non perdesse sovranità economica. Aveva visto giusto: è un dato di fatto che negli ultimi anni, dalla riforma del Patto di stabilità (2005) e più ancora dal «fondo salva-Stati» (2010), gli intenti di Maastricht siano divenuti lettera morta. Chi viola quei parametri – pensati per garantire l’efficienza dell’Unione – o non viene punito (come la Germania nel 2003) o, pur venendo punito, riceve l’aiuto dei virtuosi (come la Grecia, tornata al centro dell’attenzione negli ultimi giorni).

C’è crisi oggi in Occidente, e c’è chi per combatterla propone ricette keynesiane di investimenti pubblici, allentando i vincoli comunitari e le restrizioni internazionali. Nessuno, ormai, ricorda più quella frase con cui Margaret Thatcher aveva reciso ogni possibilità che anche il suo Paese virasse in direzione statalista: «Aver pensato di curare l’Inghilterra col socialismo è stato come aver pensato di curare una leucemia con le sanguisughe». Proprio questo è stato il merito maggiore della Lady di Ferro: andare controcorrente, ribaltare gli schemi precostituiti, imporre la propria visione del mondo. Passerà molto tempo, probabilmente, prima che questa crisi si esaurisca. Ma passerà ancora più tempo, forse, prima che qualcuno mostri la stessa caparbietà di quella signora che strigliava tutti a suon di borsetta.

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