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Se sei sveglio conti le pecore, se sei in ritardo…i semafori

Creato il 14 agosto 2013 da Pinocchio Non C'è Più

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Le persone cambiano, le abitudini anche, putroppo non sempre in meglio.

Il caso specifico che voglio andare a sviscerare è stata la mia metamorfosi nella gestione del tempo. Secoli fa, ero giovane, bello (?) e…puntuale, ma gli anni e le esperienze della vita mi hanno fatto perdere questo mio, chiamiamolo, pregio che mi ha portato solo sofferenze (dai su, lasciatemi fare un po’ il melodrammatico).

Solo le persone puntuali hanno un’idea delle difficoltà di gestire l’affollamento dei demoni quando si aspetta qualcuno che ritarda. So, diciamo, per esperienza diretta, che i nevrotici preferiscono arrivare un’ora prima che dieci minuti dopo. Per questo mi ha molto stupito leggere nei sui “Diari” che Kafka non riusciva ad essere puntuale. (ok, battuta articolata più adatta a frequentatori di circoli letterari di sinistra che raggiungono l’apice del piacere durante la visione di film in polacco con sottotitoli in ucraino). Arrivare in orario è una condanna, sei costretto a trovare dei diversivi per ingannare l’attesa, mettere le dita nel naso è uno dei più gettonati. Capita così di veder arrivare una persona trafelata e con la faccia colpevole e chiedere “è tanto che aspetti?” e l’altro “no no, tranquillo, sono arrivato da poco” e nel dire questo si gira fra le mani una sfera artigianale grande come un pallone da beach volley. (questa è decisamente più greve, da bar sport dopo un paio di birre medie).

Altra pratica molto in voga fra chi attende è il passeggiare avanti e indietro, passi così in rassegna nell’ordine: le vetrine di una libreria, un negozio di abbigliamento equestre, un’impresa di pompe funebri. Certo, il tuo aggiamento insospettisce i commessi, quello della libreria telefona a quello delle selle “oh, fai tutti gli scontrini che fuori c’è un finanziere nuovo…ha una faccia da coglione…” e il cassamortaro esce sulla porta chiedendoti “buongiorno, ha bisogno?”…”no grazie…” e lui “si certo…dicono tutti così”, ti tocchi le palle e comunque, ti riprometti di andare dal medico il prima possibile per farti un ciclo di analisi. Comunque sia, dopo un po’, presi dal timore, tutti tirano giù le saracinesche.

I puntuali, poi, non sono amati: chi arriva in orario accoglie sempre l’altro con una accusa sulla faccia. Non c’è scusa che tenga, sei in ritardo e questa è una cosa che non potrai cambiare mai più e lo odierai per un periodo infinito di tempo. I puntuali passano per perfettini e grandissimi rompicoglioni. Hai un appuntamento a casa di amici, ti presenti in perfetto orario, suoni alla porta e senti lei che dice “Cazzo, è già arrivato…boia che palle, devo ancora finire di sistemare tutto, ma a che ora gli avevi detto???”, una volta sono arrivato con un leggero anticipo, lui è venuto ad aprirmi tirando su la zip dei pantaloni e lei ha percorso il tratto camera da letto-bagno in sette secondi netti coperta da un lenzuolo, tipo Casper.

Insomma, mentre sei li, abbarbicato all’angolo della cantonata, giungi al punto di ebollizione dell’attesa e si produce il fenomeno per cui quasi speri che l’altro non arrivi più, per avere ragione di odiarlo definitivamente. E invece quello arriva. Quasi sempre.

Ma è davvero così importante che l’altro arrivi in tempo, o che, semplicemente, arrivi? Avresti voglia di andartene dopo dieci minuti, una volta tenuto conto che la persona che stai aspettando non è Kafka.

Ma come dicevo all’inizio, le persone cambiano e io sono passato dalla parte del nemico. Arrivo sistematicamente con almeno quindici minuti di ritardo.

In realtà impiego quel lasso di tempo che mi farà odiare in cose futili che potrei sicuramente rimandare, tipo rispondere ad un commento su facebook, scaricare la posta o giocare la finale di Champions League a PES. Si, perchè al contrario di ciò che possano pensare coloro che attendono, chi è in ritardo, nella maggior parte dei casi, non sta facendo un emerito cazzo. Vuole semplicemente dare di se l’impressione di una persona piena di impegni.

Ma ormai il ritardo per me è una malattia conclamata, ho cercato di curarmi con rimedi omeopatici, tipo mettere l’orologio avanti di dieci minuti, ma la consapevolezza di tale gesto mi fa guardare le lancette e dire “ma si…è ancora presto”. Durante il tragitto che mi separa all’appuntamento conto tutti i semafori che incontro, i ciclisti che non vanno in fila indiana e gli ometti col cappello, in modo da accampare scuse false ma plausibili. Il problema mi nasce quando il luogo dell’appuntamento è a trecento metri da casa mia, in quel caso, molto probabilmente, arrivo col fiatone giurando sul cane del vicino (che di solito alza la gambetta posteriore destra a ridosso dell’anteriore sinistra della mia auto), che ero fuori città per lavoro, che c’era la coda in austrada a causa del controesodo (anche se siamo al ventuno ottobre) e che il casellante non aveva gli spiccioli per farmi il resto (anche se la scatoletta del telepass fa bella mostra di se sul vetro). Tra i miei amici, mi sono guadagnato il soprannome di “la sposa” il commento più colorito è stato questo: “attento, non sottovalutare questi ritardi, l’ultima volta che la mi’ moglie ne ha avuto uno…è nato Nicola”

Comunque dai, datecene atto, noi ritardatari siamo fantasiosi per necessità, siamo costretti a trovare sempre nuove scuse, le persone ci odiano, ma alla fine ci perdonano, quando arriviamo facciamo gli occhioni dolci da gatto (spesso in calore), diciamo la prima cazzata che ci viene in mente e ci sediamo tutti a tavola a mangiare la pizza ormai semi congelata e la Peroni in ebollizione. E poi da quando ho letto su ilmiopsicologo.it che l’essere in ritardo è una patologia, cerco di condividere il peso di questa mia malattia con le altre persone, perchè come diceva Pascoli “il dolore è più dolor se tace”.

A Berlino, il 7 ottobre del 1989, Gorbaciov disse a Honecker che “la vita avrebbe punito i ritardatari”. Un mese dopo crollò il Muro.



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