Ebbene si, lo confesso: ho provato l’ebbrezza del branco. Tutto è nato così, un po’ per caso, succede quando sei in un gruppo di persone e sorge quello stato d’animo che è un insieme di compiacimento tra pari, campanilismo e desiderio di sfogare la difficoltà nell’imporsi attraverso la logica dell’unione fa la forza, il tutto applicato a un piano tutto sommato diabolico. Perchè sei lì con la mente fresca e libera dal logorio del lavoro e della routine, quindi lasci spazio a stimoli viscerali che altrimenti le convenzioni sociali relegano magari non proprio al basso ventre ma comunque a livelli infimi della tua natura. Che non è una natura competitiva, anzi, vivi forte dell’orgoglio di distinguere il momento in cui è opportuno farsi da parte, tu che tra la gioia della vittoria e l’amarezza della sconfitta preferisci continuare a non partecipare. E così, per una volta, quando vedi che effettivamente con il lavoro di squadra è possibile emergere o addirittura primeggiare, il tuo equilibrio va a quel paese e il passo verso il tirarsela e il bullarsi è breve.
L’uomo dà il peggio di sé quando è in branco, e quando il branco in cui si riconosce è coinvolto in una specie di concorso nel luogo in cui sta consumando le vacanze estive. Il concorso è una sorta di trivial pursuit, domande di varie discipline su livelli di difficoltà crescenti, da quello base ai quesiti molto complessi. C’è un maestro di cerimonie, un presentatore lì davanti, un simil-fiorello che spiega le regole e le modalità. Noi ci si dà uno sguardo complice, diamo anche un’occhiata agli altri gruppi che ci stanno intorno e che hanno deciso di mettersi in gioco; perché no, ci diciamo, e uno del branco si fa consegnare il diabolico strumento per dare le risposte. Un telecomando con cinque pulsanti, occorre premere quello corrispondente alla risposta esatta e nel minor tempo possibile. A quel punto siamo nel momento ludico, ma il momendo ludico si trasforma subito in gara, e la gara in desiderio di vittoria a tutti i costi. Perché il primo premio comprende un sacco a pelo, e il sacco a pelo è la cosa più preziosa che un campeggiatore può possedere.
In tutto partecipano una trentina di squadre, ma noi siamo determinatissimi e cattivi. Che pessimo esempio per i bambini, i nostri figli, gli stessi ai quali insegniamo, durante i restanti mesi dell’anno, a non essere egoisti, a rispettare il prossimo, alla sconfitta come frutto inevitabile da assaporare prima o poi, al fair play. Mentre ora siamo lì, con quello strumento in pugno e stiamo dando il peggio di noi stessi. Già, man mano che il gioco procede, il nostro punteggio aumenta, diamo sempre la risposta corretta in tempi sufficientemente brevi. Dileggiamo gli avversari. Ci diciamo che contro squadre così dobbiamo vincere a tutti i costi. Viene a galla il senso di superiorità. Facciamo nostre le domande più difficili, geografia, storia, letteratura, e cadiamo solo sugli argomenti su cui siamo poco informati, la nazionalità di Sissoko, il protagonista della fiction dell’odiata Mediaset.
La boria aumenta, la vittoria è vicina, uno di noi dice che dobbiamo assolutamente farcela. E quando il count down della classifica finale svela il nostro numero identificativo confermato alla prima posizione, esultiamo come i peggiori individui, quelli che la nostra presunta superiorità morale ci impone di mettere all’indice in tutte le altre occasioni e che, chiusa questa parentesi aperta per necessità, la necessità del sacco a pelo nuovo di pacca, tornerà a farci lanciare anatemi e condanne su chi parcheggia in doppia fila, su chi si riempie di tatuaggi, su chi si compra il macchinone e via dicendo. Il capo branco ritira i premi, c’è anche una sedia da spiaggia, tutta rossa con la bandiera della Sardegna, e a colpi di cinque e di pacche sulle spalle rientriamo in tenda. Mia figlia mi tiene per mano, tutta contenta, ed ecco che mi vergogno un po’, perché mi sento snaturato di fronte a lei. Papà, mi dice, papà sono felice perché è la prima volta nella mia vita che vinco un premio. Anche io tesoro, le dico, anche io.