Quella volta Luna mi rivelò che il racconto appena pubblicato parlava di noi. Tutto cominciava con l'incipit, lei stava effettivamente preparando un lavoro su Machiavelli, la mente vagava e si chiese dove ci saremmo conosciuti se non in una biblioteca. Abbinò i colori dei miei abiti alle emozioni che le trasmettevo all'inizio, quando avvertiva una certa distanza, tanto che credeva fossi molto più grande di lei. Pensò che "Wish you were here" dovesse significare qualcosa di speciale, pensò all'estate del 1987 quando aveva smesso i giochi di bimba ed io stavo ritrovando la salute. C'era come mi sentiva, come immaginava la sentissi io. Aveva aggiunto poi qualche elemento, i figli ad esempio, o l'Irlanda, per non rendere tutto troppo personale. Ricami di fantasia, cuciti su tela grezza eppure resistente. Diceva che le capitava nei suoi silenzi di riuscire a intuire le cose, ad avere una specie di visione d’insieme. E quando proprio non riusciva a dar voce a certe suggestioni, a certi turbamenti, ecco che aveva bisogno di farne una storia.
* * *
Ci siamo conosciuti verso sera, in biblioteca, tra la M di Lorenzo il Magnifico e quella di Machiavelli. Io cercavo veleno di mandragole più per dovere che per altro, tu la congiura dei Pazzi, per passione più che per altro. Sfuggivi allo sguardo che ogni tanto lanciavi tra la polvere degli scaffali. Erano sere che senza appuntamento ci si trovava tra quelle lettere. La mia consueta frequenza di quella biblioteca mi aveva dato il modo di immergermi non solo nei libri, ma anche nei lettori, ed ero appassionata osservatrice di un'umanità intrisa e persa tra le letture, cercando nel silenzio angusto di percepire cosa cercasse ciascuno fra le righe altrui.
Mi sei sempre sembrato distante, e se tu fossi stato un colore saresti stato grigio. Grigio come i tuoi pantaloni, come la montatura dei tuoi occhiali, come la seriosa tristezza del tuo viso, grigio come la pioggia di Londra che ti scavava da anni l'anima. Un giorno ho avuto bisogno di te. Era quasi la chiusura, e non c'era nessuno in giro. Il mio libro era troppo in alto per me, per me che soffro di vertigini in alcuni contesti, come questo. Allora ti ho fermato gli occhi: "scusa...", e sei salito. Hai sorriso. Ho sorriso.
Da allora sono cambiate diverse cose. Senza appuntamento abbiamo continuato a trovarci, frementi di un silenzio imposto, di una ricerca imposta, di tavoli barricati di libri imposti. Poi ci siamo scambiati i numeri di telefono per trovarci più perfettamente. Ma gli ultimi cinque minuti erano nostri. Sotto ai portici, sulla strada, fuori dal portone. Abbiamo collezionato abbondanti serie di cinque minuti, in cui abbiamo dosato tutta la nostra vita, senza filtro. "Ho due figli, Giulia e Lorenzo, sono la mia vita". "Io ho dei bimbi ma non sono i miei". "Amo molto la storia, mi piace da impazzire, ma anche gli scrittori sudamericani". "Su quelli potremmo allora parlarne a lungo". "Sei mai stata a Cuba? E' fantastica, devi andarci, devi... presto". "Ho viaggiato ma non quanto te, che ti porti addosso le carte dei tuoi viaggi". "Faccio un lavoro strano, non l'avrei scelto, ma era segnata la mia strada, parlo sempre di soldi, in una giungla che non è la mia vita, la vita che vorrei". "Non si può scappare, in certi punti non si può scappare". "Il tuo ragazzo è fortunato e sa di esserlo. A volte si sceglie ciò che si crede il bene relativo". "Non so stare ferma". "Andiamo a Praga in moto, e nel resto d'Europa. Partire. Io sono sul binario ma voglio deragliare, lateralmente". "Non faremmo molta strada". "Perché?" "Perché tu porti maglioni tristi, camicie di seta rossa, completi gessati, io ho sempre gonne troppo lunghe, stole da mercatino, colori bruciati, pietre senza valore, io cammino a piedi fra le pozzanghere, tu hai sempre l'autista che ti aspetta e che ti porta ovunque". "Ma che c'entra?". " C'entra che siamo troppo diversi". "Io sono ciò che dovevo essere non ciò che volevo". "E' tardi". "Ma tu mi piaci perché mi fai sentire vivo, mi fai essere me stesso, sto cambiando, mi sto ritrovando". "E' tardi". "Io ti sento forte". "Io ti sento sottopelle". "Ho bisogno di te...". "Capito, magari anch’io, ma è tardi".
Ho rinchiuso in un cassetto tutte le emozioni che mi scioglievano le gambe, ho chiuso la cassa amplificata del mio istintivo grido. Non ti ho detto che ero come te, che sentivo come te, che ero dentro questa cosa, come te.
Una sera mi hai chiamato. Non ci siamo mai visti al di fuori di quei cinque minuti sulla soglia. Mi hai telefonato perché sapevi che ero sola. Avevi voglia di parlarmi. E non era tardi. "Senti che musica". Al telefono ho sentito che hai messo su Wish you were here. Hai iniziato a parlare per starmi addosso da lontano. "Cose mai detto a nessuno, né prima né dopo di te. Era il 1987. Era estate".
Mentre parlavi mi chiedevo dove ero io, nell'estate del 1987. Era la mia estate, la mia prima estate senza essere bambina. Era il 1987. Era la tua estate. "Era il 1987, e i Pink Floyd per alcuni erano solo alcuni stronzi che suonavano, per altri erano una moda della Swinging London anni ‘70. Per noi no, per noi erano poesia. Non la poesia dei libri e dei banchi, ma la poesia palpabile della nostra vita a vent’anni. Era il mio rifiuto generazionale verso una mentalità piccoloborghese provinciale e incomprensibile. Senso di alienazione, disgusto per la vita che ancora non ti ha annientato dentro, attesa di una controparte che possa condividere tutto ciò. La loro musica era uno stato di non esistenza, nell'attesa. Cercavo un senso, il mio senso, nella estraneità del mondo, nei paradisi artificiali, in un'anima oscura bastarda quanto me, e da quella sera la musica suonava anche per lei. Un'anima oscura per non distruggerci completamente. Giorni bruciati di discussioni, fiorire di due vite, pensieri e sensazioni, il fuoco che da amicizia diventa amore, un amore onnivoro, che divora, che fa stare svegli, baci, liti, giorni al limite, notti di sesso, come essere preda di un demone irrinunciabile. E così indemoniati ci vedevano le nostre famiglie perbeniste e altoborghesi e che inutilmente tentavano di ricondurci sulla retta via. Io e lei, senza arte, senza passato, senza futuro, senza soldi. Mille dubbi, mille paure, mille verità, mille lavori per fuggire appena possibile. E fuggimmo per andare a Londra al concerto dei Pink Floyd. E fuggimmo per non tornare. Andammo in Irlanda, con un lavoretto sul porto. Un anno. E' durato un anno. Lei mi rubava ogni respiro, ogni mia vita, lei mi capiva, lei era me. Ed io non capivo, non capivo che stava male, che aveva bisogno di tornare. Non capivo. Lei che mi è stata strappata via da una morte lenta. Lei. Sono tornato da solo, a casa. Lei non c'era più. Ho ripreso i miei studi, mi sono laureato in Economia, adesso dirigo le attività della mia famiglia, quelle per cui sono nato. Da otto anni sono sposato. Livia non mi ha mai chiesto niente del mio passato, non lo vuole sapere. Ho sposato Livia perché in quel momento era l'unica persona che avevo vicino. Convivo con il mio demone in questa vita prefabbricata, quando i miei istinti, i miei ideali non sono sopiti. Ascoltami. Ho bisogno di te. Perché mi sto ritrovando. Perché mi fai impazzire".
Ascoltai in silenzio, senza tradire nei respiri l'emozione del racconto. Non ho detto che era tardi. Sono rimasta in ascolto. In ascolto a cercare parole che non facessero male, a cercare parole adatte, a cercare il modo di non muovermi. Nessun dolore. So di non essere vigliacca, ma so anche di non essere forte, so cosa sono. Sono rimasta in silenzio, a cercare chissà cosa, forse, ecco, il nome delle cose. E ancora ripenso a questa vita che non mi appartiene e che custodisco preziosa dentro di me, come una costola non troppo estranea che si muove sui miei respiri, e ancora chiedo un accordo che dipani i miei pensieri, e mi faccia trovare questo benedetto nome delle cose che nessun libro mi vuole rivelare perché sono pagine della mia vita, troppo dense e straripanti per qualsiasi archivio.
Luna