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Sea Peoples - La storia dei popoli del mare 4° parte di 5
Creato il 16 febbraio 2011 da PierluigimontalbanoL'invasione dei popoli del mare:
La fine di Amenophi IV è caratterizzata non solo dal crollo del dominio egizio in Siria ma anche dagli attacchi degli Ittiti che non rinunciavano alle velleità espansionistiche nel sud-est, e dalla crescente potenza assira. A farne le spese fu il regno dei Mitanni, invaso anche da tribù aramee. Amurru, Ugarit, Qadesh e Karchemish, divennero vassalle ittite e lo sfacelo del regno dei Mitanni pose le basi per uno degli scontri più celebrati dell'antichità, quello fra ittiti ed egizi a Qadesh, sul fiume Oronte nel 1274 a.C. Fu un pareggio e si giunse ad un trattato di pace con Ramesse II che prese in sposa la figlia del re degli ittiti Khattusili, succeduto a Muwatalli. L'Egitto era inattaccabile e l'impero ittita era al suo apogeo. Gli assiri non erano in grado di creare serie minacce, mentre gli achei-micenei erano padroni nel Mar Egeo, almeno fino alla decennale impresa di assedio della pelasgica Troia, l'unica città in posizione strategica sfuggita al potere dei micenei, punto nodale per i commerci sul Mar Nero. La civiltà di tipo palaziale è la caratteristica, Egitto escluso, del mondo che si affaccia sul Mediterraneo, diretta conseguenza dell'arrivo delle nobili caste di guerrieri indoeuropeei che verso il 1750 a.C. portatori di nuove armi, del cavallo e di una nuova cultura, avevano cambiato la realtà del mondo. Questo equilibrio di forze e di potenze sarà drammaticamente interrotto da una tempesta devastatrice tale per cui la storiografia considera i successivi tre secoli una buia era. Solo l’Egitto si salverà dall'invasione, ma a caro prezzo, tanto da meritarsi il sarcastico appellativo degli assiri: “la canna spezzata”. La tempesta arriva dal mare e dai suoi popoli, come ci raccontano gli egizi. Sono le genti dell'Haou-Nebout e arrivano dalle isole del Grande Verde. L'invasione avverrà in due tempi a circa quarant'anni di distanza, prima sotto Mereptah e poi sotto Ramesse III, preceduta da sintomi che sarà opportuno analizzare. Ciò che rese inevitabile una migrazione di ben nove popoli va ricercata in importanti mutazioni climatiche, in sconvolgimenti sociali interni o in disastri ecologici. L'impero ittita è colpito da un'improvvisa e grave carestia. La richiesta di aiuti e di grano giunge all'Egitto con toni decisamente drammatici, che ne fanno una questione di vita o di morte. La stessa richiesta viene inoltrata dall'ultimo re ittita Shuppilulyuma II alla città di Ugarit, che nello strato archeologico corrispondente appare sconvolta anch'essa da terremoti di una violenza eccezionale. Numerosi centri dell'Egeo, Micene compresa, sono colpiti da forti movimenti tellurici che provocano distruzioni e crolli anche delle costruzioni ciclopiche. Molti centri non furono più né abitati né ricostruiti, con un calo demografico rilevante. La società venne decimata e sopravvissero solo i centri maggiori che mostrano opere di restauro, consolidamento e incremento delle fortificazioni. Molti abitanti dei centri minori distrutti affluivano nei centri principali come Micene e Tirinto, ma in questo periodo si segnala il termine del potere di coloro che chiamiamo micenei: la presenza di numerose punte di freccia accanto ad evidenze di incendi, cui segue l'abbandono delle rocche principali, sono segni evidenti di eventi bellici, interpretati dagli studiosi col sopraggiungere dei Dori. Se l'Egitto appare risparmiato, la Libia è colpita da una repentina e disastrosa desertificazione. Ulteriore conferma di una catastrofe ambientale potrebbe essere indicata nel racconto biblico delle piaghe inviate all'Egitto su richiesta di Mosè, dal momento che è proprio Mereptah il faraone dell'esodo. Le prime 7 piaghe sono interpretabili come eventi concatenati originati da un'unica causa innescante, da uno sconvolgimento che portò il mare a penetrare profondamente lungo il corso del Nilo, tanto da cambiarne, nei tratti più vicini al delta, il senso della corrente. Un impaludamento portò ad una moria di pesci e alla proliferazione delle rane che invasero le città. Le successive piaghe sono state identificate anche microbiologicamente e sono risultate essere episodi infettivi di grande contagiosità, probabilmente a seguito di inondazioni di tipo ciclonico in un clima come quello egizio. I testi di Medineth Habu, pur essendo mutili, testimoniano che l'Haou-Nebout e i popoli del mare sono stati colpiti dalla potenza di Amon-Ra per opera della dea Sekhmet che ne possiede la potenza distruttiva ed è colei che ne scaglia le folgori. Ecco ciò che si legge sulle mura del tempio: "il grande calore di Sekhmet si è mischiato con quello dei loro focolari, cosicché le loro ossa si incendiano all'interno dei loro corpi. La meteora fu terrificante per come li perseguitò mentre la terra d'Egitto era serena. Così per i paesi stranieri fu la distruzione delle loro città. Furono devastate in un solo attimo, i loro alberi e le loro genti sono diventati cenere. Essi presero consiglio dai loro cuori: verso quale luogo andremo? I loro capi vennero con i loro beni e i loro figli sulla schiena in Egitto".
Si afferma inoltre di numerosi movimenti tellurici e di una marea che spazzò via le città e i villaggi. E' Amon-Ra che parla a Ramesse III affermando che mentre l'Egitto è risparmiato dal suo benefico abbraccio, l'Oceano e il Grande Circolo sono sconvolti dall'oscillazione e dall'ondeggiamento. E prosegue così: "Ti diedi la mia spada per distruggere i Nove Archi e misi per te tutti paesi sotto i tuoi piedi. Feci in modo che essi vedessero la tua maestosità come forza del Nun quando distrusse e cancellò le loro città e i loro villaggi con un'onda d'acqua". Questi testi appaiono illuminanti ed esprimono una sequenza logica, tuttavia risulta da verificare se effettivamente fu una meteora caduta nell'Oceano a provocare l'onda di marea. I sopravvissuti di questo catastrofico evento furono, in seguito, colpiti da scosse telluriche ed eruzioni vulcaniche che trovano conferma nei testi di Medineth Habu, in cui si afferma che "le isole non avevano riposo". Se così fosse, risulta evidente che i popoli dell'Haou-Nebout valutarono impossibile vivere nelle loro isole minacciate dalla natura e prepararono con cura ciò di cui avevano necessità: una grande flotta. Anche la Bibbia ci viene incontro, poiché definisce i filistei (uno dei popoli del mare) come i "sopravvissuti delle isole". Ovidio scriveva di un evento astronomico con la caduta di un astro dal cielo: "E' Fetonte che prima di precipitare nel mare Atlantico, dove si getta il fiume Eridanio, incendia e desertifica al suo passaggio intere regioni della terra, vaporizzandone i fiumi e cambiando drammaticamente il paesaggio”. Questi eventi ambientali portarono a due reazioni: una prima migrazione immediata dovuta alla perdita di ogni bene, e in seguito un piano di invasione accuratamente ideato e progettato nelle isole dell'Haou-Nebout, messo in atto con una perfetta conoscenza del Mediterraneo e dei suoi paesi.
I Dori:
Alla morte di Ramesse II era salito al trono suo figlio Mereptah. Nel V anno del suo regno (1220 a.C.), da occidente, i libici insieme ad altre genti sconosciute chiamati Meshwesh (i futuri berberi), dilagano oltre i confini dell'Egitto. Il re dei libici Meriye guida una coalizione di 5 popoli del mare: Shardana, Lika, Ekwesh, Shekelesh e Tursha. Sono gli abitanti delle isole del centro del Grande Verde, i popoli stranieri dell'Haou-Nebout, i precursori del grande movimento migratorio che investirà tutto il Mediterraneo nel 1185 a.C. A cominciare dal re libico, gli invasori portavano con sé l'intera famiglia, il bestiame ed ogni genere di bene, a dimostrare che l'invasione aveva il preciso scopo di trovare nuovi insediamenti. Nell'opera di Breasted leggiamo che i libici affermano: "il fuoco ci ha penetrati, il nostro seme non esiste più, le nostre città sono state ridotte in cenere, devastate, desolate". Ne risulta che non solo la Libia aveva subito un improvviso processo di desertificazione, ma che un tale disastro ambientale si era verificato anche più a ovest nel territorio dei Meshwes, che doveva essere un regno dall'elevato livello culturale se consideriamo il grado di nobiltà attribuito dagli egizi a questo popolo: sia perché Ramesse III si fregia del titolo di "principe dei Meshwesh", sia perché in seguito i principi di questo popolo si integreranno nell'aristocrazia egizia diventando addirittura faraoni con Sheshonk, fondatore della XXII dinastia che conta ben nove faraoni. Gli invasori avevano saccheggiato le fortezze di confine e alcuni di loro erano penetrati anche nell'oasi di Farafra. La battaglia decisiva avvenne in una località detta Pi-yer, nell'interno del Delta. I testi riferiscono che la battaglia durò 6 ore con 6000 libici uccisi e 9000 prigionieri, e riferisce di perdite non numerose inflitte ai popoli del mare, i quali non entrarono in uno scontro con gli egizi, ma si limitarono ad appoggiare le operazioni terrestri capeggiate da Meriye. La Sanders nel 1978 scrisse che agli occhi egiziani questi alleati degli africani, da qualsiasi luogo giungessero, erano tutti dei paesi stranieri del Nord, compresi libici e Meshwesh. Questa alleanza fra tribù della Libia, degli abitanti delle isole e dell'Anatolia è sorprendente. Dalle fonti sappiamo che gli achei sono i più numerosi fra gli alleati di libici.
I Lici erano già conosciuti come popolo pelasgico ed erano stabiliti sulle coste egee dell'Anatolia: le loro incursioni marine come pirati sono testimoniate da una lettera trovata in Egitto a Tell El Amarna, dove il re di Alasya-Cipro lamenta frequenti incursioni dei lupi di mare. Avevano inoltre partecipato a fianco degli Ittiti nella battaglia di Qadesh e si erano battuti a fianco dei troiani della guerra omerica. Lo studioso Gardiner parlando di Ramesse II racconta qualcosa sugli Shardana, affermando che una stele proveniente da Tanis dice che giunsero dal mare aperto con le loro navi da guerra e che nessuno era stato in grado di fronteggiarli. Poco dopo si trovano fra le guardie del corpo del faraone, riconoscibili per gli elmi sormontati da corna, gli scudi rotondi e le grandi spade con le quali sono raffigurati mentre uccidono i nemici Ittiti. In alcuni documenti troviamo molti shardana che coltivano pianticelle in terreni di loro proprietà, avuti come ricompensa dei servizi militari. Erano guerrieri Haou-Nebout del Grande Verde, e si sovrapposero alla civiltà megalitica che da secoli popolava la Sardegna. È testimoniato il sopraggiungere nell'isola di un'elìte aristocratica numerosa dal numero degli imponenti edifici, operante una spinta evolutiva che lascia sbalorditi per le spettacolari monumentali rovine. I complessi nuragici presentano volte a tholos e schemi a megaron, simili ai modelli di Troia e Micene, ma probabilmente sono più antichi. Del culto delle acque ci restano le costruzioni dei pozzi sacri, realizzati con una perfezione tecnica che dimostra capacità architettoniche straordinarie. Le corna taurine che sormontano alcuni luoghi sacri ci riportano al conosciuto culto, mentre nei depositi votivi troviamo oro, argento, ambra, avorio e una evoluta tecnica metallurgica che ci ha lasciato una corposa serie di splendide figure, soprattutto di sacerdoti e guerrieri in tenuta da parata con elmi dalle lunghe corna. Il mondo Egeo, e Creta stessa, saranno sconvolti di lì a poco dalla catastrofe nella quale, al ruolo di primo piano dei popoli del mare, si sovrappone la migrazione dorica, tramandataci dai greci come il ritorno degli Eraclidi. I dori erano guidati infatti dai discendenti dell'eroe e vantavano diritti su molti regni micenei precedentemente conquistati da Eracle. Siamo giunti a un punto nodale del flusso della nostra civiltà. Il concetto che assimilava i dori a robusti montanari dell'Epiro e della Macedonia, ha tratto in inganno molti studiosi. Ma i dori erano montanari o marinai? Sappiamo che le popolazioni di montagna non si improvvisano marinai, temono ed evitano il mare. Se osserviamo l'area di diffusione dei dori e dei loro centri urbani, evidenziamo la strategica collocazione a dominio del mare Egeo, Creta compresa. Come per i minoici, i micenei e gli altri greci aspiravano alla talassocrazia. Il mare fu un invito costante al contatto e al commercio con gli altri popoli. Come è possibile constatare in Pausania e altri autori, gli alberi genealogici dei re delle più importanti città doriche hanno un unico capostipite: Oceano. Nell'Iliade, Omero afferma che "l'acqua corrente del fiume Oceano a noi tutti è padre comune, e che Oceano è padre dei numi e Teti madre di questi". Di certo nessun balcanico o montanaro avrebbe potuto collocare nell'oceano la propria origine. Probabilmente i dori si possono identificare con quegli Akawasa che rappresentano il più numeroso dei popoli del mare. In questo modo si risolverebbe anche l'annosa problematica se fossero stati i dori o i popoli del mare i fautori della distruzione della cultura micenea. L'identità e la continuità fra achei-micenei e dori è evidenziata anche dal fatto che Eracle diventa l'eroe dorico per eccellenza e non appartiene ad alcuna città specifica, ma all'intera Grecia. Persino gli ateniesi, così attenti alla loro identità, arrivarono a consacrargli un numero maggiore di santuari che non all'ateniese Teseo. Eracle appare come la figura emergente e più celebrata dai popoli del mare, e alcune delle fatiche di Ercole sono vissute oltre i limiti che lui stesso stabilisce con le celebri Colonne, in Oceano, su misteriose isole dove pare, come nel caso delle Esperidi, che l'oro cresca come pomi sulle piante. Elementi culturali collegati all'arrivo dei dori sono lo stile geometrico nella ceramica, l'uso dell'incenerazione e l'uso del ferro. In luogo dei complessi palaziali emergono le poleis che si alleano in federazioni pronte a combattere anche fra loro, e Creta entra a far parte completamente del mondo ellenico, perdendo ogni forma di unità politica ed economica. Anche il confronto fra Wanax miceneo e Basileus (dorico o ionico) è illuminante: il primo ha un controllo sull'economia fondato su una solida amministrazione gerarchizzata, mentre nessun Basileus possiede un'amministrazione, troviamo infatti un consiglio del popolo e un'assemblea che ne limita i poteri. In nessun centro miceneo è attestato nulla di simile: si è già compiuto quel grande passo che porterà alla democrazia. È al tramonto l'era in cui dominavano le caste di principi guerrieri, giunti sulla scena verso il 1750 a.C.
Nell'immagine in alto il popolo rappresentato nella tomba del gran visir Rekmire.
L'immagine in basso è tratta da Lilliu, 1966, sculture della Sardegna nuragica
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