SEBASTIANO VASSALLI | IO, PARTENOPE
La suora di strada che osò sfidare la Chiesa dei papi
di Massimiliano Sardina
In Io, Partenope Sebastiano Vassalli rievoca la figura storica e umana di Giulia Di Marco, nata a Sepino, in Molise, tra il 1575 e il 1580. È Giulia stessa, come vuole l’architettura del romanzo, a raccontare la sua storia, dal pagliericcio maleodorante dell’umile casa natia agli altari barocchi dell’età matura; nel mezzo, tra questi due giacigli di miseria e di splendore, si dispiegano le vicende di una vita straordinaria, una vita vissuta come dono e quindi elargita, spesa per gli altri. Giulia è una donna buona in un mondo spietato, una donna eccezionalmente moderna per il suo tempo, eppure così semplice, misurata, remissiva. La sua vita (scandita in cinque stagioni ben distinte) si intreccerà e si ispirerà a quella di Teresa d’Avila, proclamata beata da Paolo V nel 1614 e fatta santa da Gregorio XV nel 1622. All’età di dieci anni Giulia viene venduta dalla madre a un anziano padrone, un venditore ambulante che la inizia al sesso e che le insegna a leggere e a scrivere; la convivenza dura cinque anni, fino alla morte di mastro Leonardo Colasanta, che Giulia, ormai sedicenne, assiste fino all’ultimo respiro «Non è stata una bella esperienza, lo so e ne avrei fatto volentieri a meno; ma ai miei tempi e tra le mie montagne, l’ho già detto, queste cose succedevano abbastanza spesso. Succedeva allora e forse succede ancora oggi che uno scapolo benestante come mastro Leonardo si comprasse una bambina invece che una donna adulta, per non doverci litigare e per non avere figli.»A Campobasso Giulia ascolta le prediche di fra’ Michele, ed è questo frate a introdurla per la prima volta alla figura di Teresa d’Avila. Giulia apprende così che anche una donna può aspirare all’immortalità, che anche una donna può ragionare con la sua testa e avere una sua personalità: più che di una folgorazione si trattò di un innamoramento. Rimasta sola, persi i contatti con la famiglia d’origine, Giulia va a vivere a Napoli in casa di Isabella Colasanta, sorella di mastro Leonardo, come cameriera e come persona di famiglia; nel personaggio di Isabella Vassalli condensa tutti i colori della religiosità napoletana, tra santini e corni di corallo, tra scongiuri e Vangeli. A Napoli Giulia si fidanza con un guappo, gli si concede, ma questi si dilegua dopo averla messa incinta. Nasce una bambina che subito (su pressioni di Isabella e di tutte le donne del vicinato) viene portata sulla Ruota degli Orfani presso l’ospedale della Santissima Annunziata. La delusione d’amore e il traumatico distacco dalla figlia segnano un punto di non ritorno nell’animo sensibile della ragazza, ora più che mai decisa ad assecondare la sua vocazione latente mai sopita: sposarsi con Dio, farsi suora. Isabella cerca di dissuaderla: per farsi suora non bastava la vocazione, ma occorreva sia una raccomandazione sia una dote in denaro (cose che Giulia, venendo dalla miseria nera, di certo non possedeva).
Nel 1598 la protettrice Isabella muore di colera e Giulia, rimasta letteralmente in mezzo alla strada, si fa suora di strada, una terziaria (ossia una suora laica francescana) e va a vivere nel rione Spaccanapoli nella Casa del Terzo Ordine francescano. Comincia qui il cammino spirituale di suor Giulia Di Marco, in difesa degli umili e in dialogo estatico con Dio, un cammino di sofferta preghiera, di silente meditazione e di abbandono mistico. In men che non si dica intorno alla donna si stringe una Comunità di Preghiera, un esercito sempre più numeroso di devoti (e soprattutto di devote), gente perlopiù povera e disperata, ma presto anche personalità altolocate. Accanto a suor Giulia, ora chiamata “madre”, si schierano il prete Padre Aniello e l’avvocato Giuseppe De Vicariis, che organizzarono la Casa in vico dei Mendisi, prima sede ufficiale della Comunità. Suor Giulia Di Marco incarnava agli occhi di tutti la vera religiosità, in dichiarata antitesi con la grigia Chiesa dei papi, un sistema di potere cieco e violento che nulla aveva a che vedere con Dio, anzi ne era la più palese negazione. Da un lato la Comunità di Preghiera, con i suoi ricoveri di fortuna e le sue minestre calde, e dall’altro la ridondante pomposità della Chiesa barocca, monumento all’avidità e allo spreco, trionfo dell’effimera materia sull’immortalità dello spirito. La Comunità di Preghiera diventò una Chiesa nella Chiesa, e suor Giulia Di Marco cominciò ad essere venerata come una santa; di lei si diceva che emanava una intensa luce, che aveva il potere di guarire, di lenire, di consolare, proprio come una santa. Tra i più illustri seguaci di questa “nuova religiosità” figurava anche la contessa Maria de Benavente, moglie del vicerè Juan Alfonso Pimentel de Herrera. La Chiesa di Roma non tardò ad individuare il nemico, questa fastidiosa minaccia al suo strapotere, e fin dall’inizio si adoperò con ogni mezzo per contrastarne l’ascesa; il temibile tribunale del Santo Offizio, però, non aveva giurisdizione nel Regno di Napoli. La vendetta sarebbe arrivata a tempo debito. «… Dovevo essere ricondotta all’obbedienza: in fondo, ero soltanto una donna!»
Tra i suoi protettori Giulia vantava anche un nobile spagnolo, tale don Alfonso Suarez (luogotenente della Regia Camera e vicario del Regno), che le offrì alloggio nel suo palazzo sulla riviera di Chiaia. Fu don Alfonso ad assimilarla al mito di Partenope, la Sirena che per volere di Poseidone incantava i naviganti per farli naufragare sugli scogli, scogli della salvezza in questo caso, sì perché per don Alfonso Giulia era la reincarnazione cristiana di Partenope, la Sirena in cui rivivevano tutte le donne di Napoli. “Suor Partenope”, così cominciarono a chiamarla tutti, sia i poveri che gli aristocratici. Partenope era stata distrutta da un terremoto, ma Napoli (Neapolis, la città nuova) era risorta da quelle ceneri. Per Napoli suor Partenope è la possibilità di una rinascita, di un dialogo autentico con il divino. Nel 1611 il Vesuvio eruttò, terribile e devastante, ma regalò a suor Partenope (novella Giovanna d’Arco napoletana) l’ultimo triennio di pacificata serenità. Dal 1614, infatti, contro “la Santa” si mise in moto la tremenda macchina della calunnia, in particolare a opera dei Domenicani e dei Teatini. Giulia-Partenope subì prima semplici spostamenti e clausure forzate – e va da sé che seppe farsi amare ovunque – poi, con l’inganno, venne trascinata davanti alla Santa Inquisizione di Roma, processata come eretica, torturata, costretta a confessare assurdità mai commesse, e infine ammessa alla pubblica abiura. In comunione spirituale con Teresa d’Avila (di cui conosce a menadito tutti gli scritti) suor Partenope attraversa l’umiliazione e il dolore sublimandoli nell’estasi; pur se fiaccata dalle brutture del carcere riuscirà poi a rimettersi in piedi e a sopravvivere fino a tarda età, sempre aggrappata alla forza tutta femminile della sua preghiera.
Ad attenderla, in Santa Maria della Vittoria, c’è però un’ultima consolazione: nel gruppo scultoreo dell’Estasi di Santa Teresa suor Partenope riconosce se stessa trentenne nel volto trasfigurato della celebre santa: la sorpresa e lo stupore la fanno barcollare; Gian Lorenzo Bernini si era servito di alcuni disegni realizzati dal padre (Pietro Bernini) in vico dei Mendisi, e mai volto fu più appropriato per esprimere il piacere dell’unione con lo sposo celeste. Io, Partenope, ultimo dono di Sebastiano Vassalli, illumina la condizione della donna all’interno della gerarchia maschile ecclesiale, una condizione che da quel lontano Seicento ad oggi è rimasta pressoché immutata. Santa Teresa fu santificata quasi per dovere, come a voler dare un contentino, giusto per salvare le apparenze e tener chete le acque. «Nella Chiesa degli uomini le donne, se non stavano al loro posto nei conventi o se non affrontavano il martirio nelle missioni, davano solo fastidio. Per tenerle lontane dalle cose importanti: per tenerle ferme, bisognava decidersi a metterne una sugli altari, e che tutte le altre si contentassero di guardare lì. Nella religione dei papi, da sempre, le donne sono la causa di ogni male.» Per ridurre suor Partenope al buio bisognava mettere Teresa sugli altari (e va da sé che l’eccezione non sarebbe diventata una regola). Troppo pericolosa, troppo scomoda per la Chiesa dei papi quella via così femminile al rapporto con Dio.
Con il romanzo Io, Partenope Sebastiano Vassalli chiude un’ideale pentalogia sul racconto delle radici dell’Italia, e tanti sono i punti di unione con il suo capolavoro La chimera. Dalla figura storica (e romanzata) di suor Partenope Vassalli lascia emergere un modello di femminilità e di religiosità assolutamente alternativo, e moderno, più moderno forse di quello attuale.
Massimiliano Sardina
Cover Amedit n. 24 – Settembre 2015
“Noli Me Tangere” omaggio a Pier Paolo Pasolini.
by Iano 2015
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 24 – Settembre 2015.
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