E’ vero il fatto che i figli ti spingono a fare cose che non avresti immaginato mai.
L’antefatto. La nana frequenta un corso di danza. Una danza gioco, quindi non immaginatevi punte e affini. Diciamo una faccenda che s’avvicina alla danza ed insegna a sciogliersi un poco.
Le piace, ci va volentieri. Al momento non si segnalano scene di isteria collettiva con madri di aspiranti prime ballerine del Bolscioi a cagare il cazzo.
Almeno, così pare, visto che in effetti, la nana, per l’intera stagione, deve essere apparsa ai più orfana, dal momento che l’accompagnamento della stessa è stato delegato in toto alla nonna, cioè mia madre.
La quale, circa quindici giorni fa, mi annuncia che fra due domeniche sarebbe avvenuta la vendita dei biglietti per il saggio. In genere queste comunicazioni mi vengono date mentre sto lavorando, e tra una grandinata di casini e l’altra reagisco con la seraficità propria di un’ottuagenaria sotto xanax. Sorrido e dico: ‘vabbé e che ci va? Solo, aspetta che me lo segno.’
A quel punto la genitrice si sente in obbligo di estendermi il punto due della faccenda, che da qui in poi chiameremo corollario (per non chiamarlo in almeno venti altri volgarissimi modi).
Pare infatti che svolgendosi il saggio medesimo nel locale teatro comunale, la prevendita dei biglietti scateni bassi istinti omicidi tra le genitrici delle Pavlova in erba, con gran cacatura di cazzo generale.
E sì, perché, mentre le nanerottole si arrabattano nella loro danza-gioco, giovani virgulte dedite alla qualunque (jazz- hip-hop e altre robe di cui fino a ieri disconoscevo l’esistenza) e spalleggiate da madri con una dose di maniacalità che in confronto il padre di Michael Jackson era la Montessori reincarnata, s’accalcano per sti cazzo di biglietti.
Il locale teatro comunale ci conterrebbe tutti più o meno egregiamente, ma si dà il caso che io debba a) collocare l’intero nonnodromo senza che esso debba assistere alla prémière dopo aver fatto ventisette piani di scale, b) sistemarlo evitando di farlo pencolare nel vuoto, c) tenere conto del meteo, che lì dentro fa caldo già d’inverno figuriamoci in estate, e comunque in questi giorni stiamo sfiorando temperature subsahariane.
Per contro, quando mi è stato detto che c’è gente che s’accampa alle 5.30 della domenica mattina per un biglietto che verrà venduto a partire dalle 14.30, ho fatto una crassa risata e sollevato il dito medio.
Poi. Poi mi sono fatta il film del: nonnodromo incazzato (si vede, non si vede, fa caldo, fa freddo, fa tiepido, minchia le scale, minchia lo strapuntino, minchia lo sgabello, minchia appunto), la nana che si guarda intorno cercando la sua famiglia, senza riuscire a metterla a fuoco, gli occhi pieni di lacrime e un trauma che le costerà anni di psicoterapia peraltro priva di esiti. E sarebbe tutta colpa mia. Rendiamoci conto.
Insomma le pippe medie della media madre italica preda dei sensi di colpi e della propria comprovata coglionaggine.
Per cui, giusto ieri, all’alba delle 8.30 salpo da casa alla volta del sito in cui si sta svolgendo sì pregiato raduno. Direte, non rompere il cazzo che le 8.30 non sono l’alba. A parte che per me le 8.30 della domenica SONO l’alba, la tragedia incombente nasce dal resto.
Intanto, per essere le otto e mezza fa già abbastanza caldo, nonostante un temporale notturno che non è servito ad altro che ad alzare una cappa di umidità che rende bianco il cielo e ad inviperire oltre misura un battaglione acrobatico di zanzare sponsorizzato dalla locale sezione AVIS.
Arrivo, e scopro che la mia levataccia si è meritata il numero 29. Siccome caduno può ramarsi su 6 biglietti, significa che sono già evaporati (e parola mai fu più appropriata) 174 posti a sedere.
Scopro inoltre che c’è gente che staziona DAVVERO lì dalle sei. Vorrei potermi ubriacare. Ma fa troppo caldo. Cerco di fuggire, recando con me il numeretto artigianale che mi hanno appioppato e mi guardano come un’idiota. Comprendo di aver pestato la prima merda di una lunga giornata. Mi spiegano, con la pazienza che si utilizza con i minus habens, che potrebbero essere contraffatti i biglietti, quindi solo la permanenza è simbolo di garanzia.
Vorrei ribattere che a) contraffare i biglietti oltre ad essere una roba da mentecatti è anche inutile (se ti ritrovi con due otto, che cazzo fai, indici una battaglia gladiatoria e vinca il migliore?) b) chi cazzo vuoi che si metta a contraffare un 29, onestamente. Uno col 62, direte. In effetti, può essere.
Ma non ho voglia di questionare, non ho voglia di fare il genio della lampada, arrivo da una settimana di merda, e me ne attende una altrettanto merdosa. Fa caldo, e io odio il caldo sin dall’infanzia. Mi siedo, e cerco di partecipare a conversazioni che non condivido con gente che non comprendo. Un’allegria di naufragi.
Ogni tanto mi chiama l’Uomo, rimasto a casa a badare alla nana. Quando non chiama onestamente è meglio. Che non è che mentre sei lì a romperti le palle, al caldo, senza vie di fuga, sentire uno dall’altra parte che ripete come un mantra, ‘ma va’ che cagata, ma va’ che cazzata, ma siete una massa di deficienti’ sia esattamente terapeutico. O meglio sarebbe anche terapeutico, se tu potessi prenderlo a pedate. Ma è distante. E si meraviglia pure che ti incazzi.
L’Uomo, poi. Lo stesso che poi, se la nana non ci avesse visti, e pianto successive calde lacrime, avrebbe intonato la litania b. ‘Ma poverina, ma povera stella, ma povera gioia’.
Finalmente alle 14.30 s’appalesano con i biglietti. Nonostante la ‘prevendita’ dei numeretti, è bagarre. Iome osserva in disparte che lei non ce la può fare, né tanto né poco. Poi gli animi si calmano, le isterie s’affievoliscono, e restano solo le frecciatine puerili.
Iome ne uscirà due ore più tardi. Dopo otto ore colà trascorse. Praticamente una giornata di lavoro. E con posti a sedere decorosi. Che comunque, qualora non dovessero piacere, a chi avrà da ridire faccio mangiare il programma.
Ne uscirà due ore più tardi, dopo un’attesa che neanche per il concerto del Liga ormai troppi anni fa. Dopo ore di chiacchiere inutili, con una sensazione di incredula perplessità, che lei, iome, si è sentita per una vita superiore a ste cagate e invece eccola lì, disciplinata come una scolaretta.
Ne uscirà due ore più tardi, con l’onesta convinzione che se l’anno prossimo la nana dovesse ancora optare per la danza, sarà ancora lì disciplinatissima, ad onorare una manfrina che, al fondo, disprezza (anche se spera, in franchezza, che la nana si dia al rugby).
Ne uscirà due ore più tardi dopo aver capito che puoi andare e tornare, e crederti intelligente, di buon senso ed emancipata. Ma alla fine, la vita ha quel potere atavico, che si riassume nel fatto che i figli so’ piezz’e core. E non c’è niente da dire. E soprattutto non c’è niente da capire