Silenzio da due di notte. Nell’aria immota improvvisi i rintocchi in terza maggiore del vecchio campanile: due lunghe vibrazioni come pietre a colpire la superficie del buio. E un fremito aveva percorso la rigidità del paesaggio attraversando i sentimenti di desolata solitudine disseminati nelle tenebre. Solitudine nell’immenso giardino invaso dalla gramigna e dai rovi. Solitudine nella volta del cielo e lungo i sentieri sconnessi. Solitudine nella stanza dal massiccio arredo in stile e avvolta in un’oscurità resa ancora più totale dalle pesanti tende rosse rigorosamente incrociate sulle vetrate ad arco.
Ad occhi chiusi nel suo enorme letto a due piazze M.lle Duc ancora non riusciva a prendere sonno. Con un senso di nervosa impotenza seguiva con la mente il lento scorrere del tempo ascoltando indispettita gli ulteriori rintocchi metallici del primo quarto della campana “minore” per poi mentalmente sottrarre alla notte le ore, i minuti, i secondi, che ancora mancavano all’alba. L’alba sarebbe arrivata come sempre, lo sapeva bene. Ma senza vera possibilità di redenzione per lei. La sua vita era diventata un buco nero che aspirava, triturava tutto e scaricava i miseri resti chissà dove.
Anche il suo cavallo l’aveva disarcionata, rovesciata, scaricata poi le era stramazzato addosso. Il povero animale aveva finito di soffrire, di sopportare le manie perfezioniste o i veri e propri eccessi di zelo di quella sua padrona che spesso riusciva a trasformare persino una semplice passeggiata in un complicato studio di passi e di ritmi.
Lei invece, M.lle Duc non aveva avuto la stessa fortuna ed ora gravemente ferita alla spina dorsale si ritrovava immobilizzata in un letto come un malato di mente legato nella camicia di forza a dovere fare i conti con le notti, coi silenzi, con sé stessa. E come giustizieri implacabili i cari compagni di incubi si ripresentavano puntualmente coi loro fantasmi quasi a volerla trascinare lungo un immaginario tunnel tutto in discesa verso un ignoto centro di gravità, verso chissà quale recondita plaga sommersa, magari un qualche girone dell’inferno. Il più profondo.
“No, non sono una traditrice… sono una maestra” aveva urlato raucamente come se qualcuno potesse sentirla. Forse aveva dimenticato che la sera prima aveva licenziato in malo modo anche Emma, la giovane infermiera, l’unica persona che per pura etica professionale aveva accettato di prendersi cura del suo corpo scheletrito: “Se ne vada , incompetente, non mi può rifiutare la mia dose di sonnifero, non voglio restare sveglia di notte…” le aveva urlato agitandosi e roteando quel suo piccolo cranio contornato da una rada e sudaticcia peluria rossa. Uno sgraziato pugno di ossa buttato alla rinfusa su quel letto massiccio, un letto in stile che ora sembrava guardarla con ironia, non vedendo l’ora di sbarazzarsi di lei. Un letto a due piazze che non aveva mai conosciuto nessun altri che lei. Lei, la zitella, il terrore di tutte le classi…. M.lle Duc, la maestra.
E nel delirio un diffuso sudore freddo aveva imperlato la sua fronte “Sono una maestra… una brava maestra! Lasciatemi, i miei ragazzi mi stanno aspettando” ripeteva angosciata dimenandosi come in una fantomatica lotta contro invisibili avversari, forse i suoi demoni interiori. E in quel preciso istante il vecchio campanile aveva scandito tre cupi rintocchi “don, don, don” come ad evocare il lontano canto “in tre parti” di un famoso gallo perso nei tempi…
No, lei quei rintocchi che continuavano a prolungarsi nell’oscurità proprio non li sopportava, di quei suoni profondi che vibravano dentro ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non solo non le conciliavano il sonno ma in qualche modo attentavano alla sua tranquillità, al suo equilibrio interiore perché per quanto lottasse quelli riuscivano a dirottare la sua mente verso pensieri che ormai non le appartenevano più, verso modelli che aveva cancellato da tanto tempo.
Quei modelli che avevano attraversato la sua giovinezza li aveva poi a poco a poco abbandonati come “idee sorpassate” nell’aria densa di incenso della chiesa gli ultimi periodi che aveva deciso di partecipare ad una funzione religiosa.
E il ricordo di una particolare “predica” del parroco smarrita nei meandri del tempo le procurò un senso di amarezza e di disappunto tale da procurarle quasi un dolore fisico.
Una predica apparentemente innocua, il solito sermone, una banale storia di rette, semirette e segmenti. Ma cosa c’entravano quelle nozioni scolastiche con la storia di Dio e delle miserie umane? Quel parroco proprio non lo capiva… Poi invece con estrema chiarezza quella stupida storia era riuscita a mettere a nudo la sua parte più personale, più profonda, più segreta.
Ne era rimasta allibita, ammutolita.
Se la “retta”, la magnifica linea senza inizio e senza fine rappresentava Dio, lei…. “Non siate degli sterili segmenti, delle inutili linee tronche mosse dal caso….” aveva tuonato il parroco con voce imperiosa, facendola sobbalzare. “Aspirate a diventare semirette…. Da un punto fisso aspirate a prolungarvi nell’infinito”
Come si era sentita “segmento” quella domenica mattina. Uno stupido, arido segmento senza più passioni, senza veri interessi, senza più sentimenti da condividere con niente e con nessuno. Ecco cos’era diventata la sua vita: un deserto, un deserto sul quale ogni giorno si sforzava di piantare dei fiori cercando di colorare il mondo di ciò che non c’era. E il deserto avanzava….
Come un automa aveva rivolto lo sguardo verso i genitori. Loro così dignitosi, rilassati e ben allineati nella stessa panca, loro che avevano cercato di fare del loro meglio e l’avevano indirizzata nella scelta di quella scuola a lei così congeniale….
Lei, M.lle Duc invece, sola dalla parte opposta della navata si era improvvisamente resa conto di potere leggere la sua inettitudine nei loro sguardi ed il rosso acceso dei suoi capelli non faceva altro che accentuare le distanze fra genitori e figlia sino a disperderli in lontananze siderali. A quel pensiero la giovane maestra si era morsa il labbro inferiore e con una specie di smorfia che indicava disagio si era toccata la punta crespa di quella sua chioma di fuoco: chissà da dove era fuoriuscita quell’odiosa combinazione? Forse uno scherzo genetico di una qualche folle antenata condannata al rogo…. E coi suoi alunni se ne rendeva perfettamente conto, spesso un po’ strega lo era davvero….
E poi quei poveri genitori cosa avrebbero mai potuto sperare da quella figlia che fra le tante scelte rimaste a mezz’aria fra il dovere e la sopravvivenza non aveva neanche saputo tenersi il fidanzato?
Certo, avevano avuto ragione loro anche quella volta. I suoi genitori avevano sempre ragione! “Non è l’uomo adatto a te…” aveva amaramente concluso un giorno sua madre dopo l’ennesimo battibecco. E che quello fosse un bel ragazzo dal cuore leggero, troppo bello per la rossa, lo aveva perfettamente intuito anche la sua migliore amica….
Sull’onda di quei duri pensieri che si erano rovesciati come macerie sulla panca della chiesa, quel giorno col cuore pieno di rancore, lei, la signorina Duc quale inetto segmento incapace di elevarsi al di sopra della delusione di scarabocchi di linee senza significato, con la mente aveva rasentato la vertigine partorendo una verità inconfessabile: non solo non amava più nessuno ma non amava neanche la sua vita. Come avrebbe potuto amare i suoi alunni?
Aveva toccato il fondo. Il cuore trasformato in una prigione di segmenti appuntiti pronti ad uccidere, per un tempo che fuoriusciva a qualsiasi calcolo era rimasta inchiodata in una trappola di linee che non volevano saperne di elevarsi al grado di semirette.
Un lancinante dolore alla schiena l’aveva improvvisamente risvegliata da un torpore di angoscia che l’aveva lasciata spossata e con la bocca riarsa. “Ho sete…” Aveva cercato di allungare un braccio nella speranza di incappare nel bicchiere d’acqua che ricordava appoggiato da qualche parte sul comodino proprio vicino al letto. Ma il buio totale che sembrava avere inghiottito la stanza le aveva fatto perdere la cognizione dei luoghi e nell’annaspare confuso aveva rovesciato quanto tanto bramato.
Era disperata. Aveva bisogno di un po’ di luce, un barlume, un contorno. Le sarebbe bastato anche il colore della notte contro i vetri. Ma era stata lei ad ordinare la chiusura totale della pesante tenda rossa. Le mente affollata in nebulosi appannaggi si era ritrovata a parlare ad alta voce: “Ma che ore sono… dove sono finiti quegli stupidi rintocchi di tutte le notti?” Doveva proprio essere impazzita: ma era proprio lei che bramava il suono del campanile come un’ancora di salvezza?
Poi come in preda al delirio improvvisamente le sembrò di vedere le sue classi, le sembrò che tutti i bambini delle elementari entrassero in quella sua stanza con una candela accesa in mano. “La luce” aveva mormorato, “finalmente un po’ di luce”. In balia di una folle quanto sconosciuta felicità lei li aveva salutati, ed avrebbe tanto voluto abbracciarli uno ad uno. C’erano tutti, proprio tutti. Persino gli alunni stranieri…. Quelli che lei riusciva ad apprezzare di meno, quelli che le facevano perdere tempo e la costringevano a dare il meglio di sé. In quel momento amava anche quei ragazzi lì, non le importava se pronunciavano le nuove parole con inflessioni linguistiche che lei detestava. Anche loro le avevano portato la luce. Erano tutti angeli, di tutti i colori. E come tali lei stranamente sentiva di amarli.
Dal fondo del baratro in cui era caduta dopo tanto tempo aveva osato innalzare lo sguardo verso il cielo. Ma era stato questione di pochi minuti, improvvisamente quelle figure di luce così com’erano entrate si stavano dissolvendo senza una parola. “Non ve ne andate” aveva urlato “vi prego, non portate via la vostra luce…. ” E rimasta nel buio più totale dopo tanti anni sentì le lacrime inondarle le guance straripando dai loro letti di aridità come fiumi in piena.
Mentre la campana grande rintoccava l’ora quarta della notte e un doloroso senso di morte e di precarietà le distruggeva i pensieri si sovvenne i versi di un poeta che chissà perché aveva imparato a memoria: “Se non hai passioni e sogni grandi resti all’anagrafe solo un rigo nero”(1). Ora ne capiva perfettamente la portata.
Mossa dalla nuova consapevolezza di sé cercò qualcosa che potesse aiutarla, a tentoni sul comodino la sua mano incappò in un telecomando: era quello che azionava il meccanismo delle tende. Un fruscìo leggero…. e l’intera notte puntellata di stelle entrò in quella stanza tutta in una volta.
Antonella Brighi
(1)Narda Fattori “Le parole agre” L’arcolaio, 2011 cit. p. 42